#ARF3: That’s All Folks!

31 maggio 2017 da Mauro

Con l’ultimo corriere che lascia il MACRO di Testaccio, finisce ufficialmente – anche per noi – la terza edizione dell’ARF! Festival.
Con Fabrizio che manda gli ultimi comunicati dalla CAE, Stefano che revisiona i conti con Lorenzo, Gud che stipa le scatole avanzate nelle macchine e Paolo che porta, insieme a Saskia, i quadri alla Fox Gallery.


Così finisce la terza edizione del festival inventato tre anni fa da una banda sgangherata e che solo grazie all’aiuto di tanti amici e colleghi è arrivato a esprimere, finalmente, quel potenziale che sognavamo soltanto di poter raggiungere in così breve tempo.


E io sono stanco, ma contento.
Contento dei sorrisi del pubblico che ha vissuto il festival in tutta la sua espressione.

Contento della serenità di tutti gli autori che per tre giorni hanno ininterrottamente siglato migliaia di dediche nell’ARFist Alley, nella SelfArf, negli spazi dei loro editori e che tra i tavolini del bar scherzavano tra di loro, rilassandosi.

Della soddisfazione di tutti gli editori presenti che nonostante il caldo continuavano a rimpinzare di copie i loro banconi per seguire tutte le richieste dei visitatori.

Dello stupore positivo delle fumetterie che hanno visto raddoppiare l’affluenza di pubblico grazie al nuovo posizionamento.
Dell’enormità del valore e dell’eterogeneità delle mostre che siamo riusciti a esporre. Da quella del maestro Milo Manara, organizzata insieme al Comicon (grazie di tutto, Claudio & Alino <3 )

     

a quella dei Disney francesi, organizzata dalla grande Galleria Glenat di Julien Brugeas che ci ha onorato di lavorare con noi per esporla a Roma,

  

passando per quelle di Sara Pichelli, insostituibile volto di questa edizione,

  

del sommo Gigi Cavenago,

della promessa mantenuta Bianca Bagnarelli

e quella che abbiamo esposto allo Studio Pilar e che raccontava gli incredibili sei anni di Inuit.


Della Self Arf pensata, voluta, gestita, organizzata dalle splendide Rita Petruccioli e Francesca Protopapa

un’oasi incredibile di creatività, divertimento, gioco, performance live,

e altissima qualità delle proposte con decine e decine di autori presenti e disponibili per tutto il periodo del festival.


Dell’ARFist Alley pensata, voluta, gestita e organizzata dalla new entry David Messina (supportato dall’ottima Susanna)

che non solo ha portato a termine, fin dalla prima volta, una missione enorme consegnando quella che è insindacabilmente la migliore Artist Alley che si sia mai vista in un festival italiano,  ma s’è rivelato fin dal primo momento un vero e proprio Arfer!

Dell’ARF!Kids che ha intrattenuto, truccato e divertito per tre giorni centinaia di bambini con una serie di laboratori di altissimo livello tenuti da professionisti del fumetto di serie A, disponibili come non mai.


Delle MasterclARF! in cui Giuseppe Palumbo, Tito Faraci, Marco Rizzo & Claudio Calia, Michele Foschini, Sara Pichelli, Gigi Cavenago, Rita Petruccioli & Zerocalcare hanno INSEGNATO come trasformare delle altissime specificità artistiche e creative in un lavoro.
Di tutti gli ospiti dei talk nella Sala Incontri che si sono rivelati sempre portatori di punti di vista interessanti e dei moderatori Luca Raffaelli (nostro ARFiere), Carolina Cutolo, Riccardo Corbò, Adriano Ercolani e Matteo Stefanelli, che li hanno condotti con una professionalità e una competenza rara, nonché di tutti quei visitatori che nonostante la temperatura aliena alla vita hanno resistito stoicamente e anzi, in tanti hanno vissuto la Sala Incontri come una serie di incontri da non perdere nel loro insieme. Diversi talk mi hanno emozionato, certo è che quello dedicato a Fumettology non lo dimenticherò mai. Nel bene e… nel male, maledetti!!! 😀  Chi c’era sa perché.

                


Del mega party “La Notte del Fumetto” organizzato a Ex-Dogana da ARF! & Fabrique e che ha visto proiettare nella sala cinema, mai così piena, il doc. di Serena Dovì “Fumetti dal futuro” e il film di Alessandro Rak: “L’arte della felicità”, oltre che lo spettacolo di stand-up comedy di Daniele Fabbri “Il timido anticristo”,

mentre negli spazi all’aperto si ballava con il DJ Set organizzato da Andrea provinciali per TINALS. Mai, durante un festival dei fumetti a Roma, si era organizzato un super party del genere, e vedere ballare, bere e sfidarsi in interminabili partite di biliardino e ping pong così tanti fumettisti, è stato un piacere immenso.
Dei nostri main partner – PressUp, ATAC, Kare, Arredo Pallet, Fox Gallery, Kohinoor – che, insieme al patrocinio della Regione Lazio, di Roma Capitale e di Biblioteche di Roma, che hanno concesso i loro spazi riconoscendo il nostro valore culturale, hanno supportato, sopportato e reso grande questa edizione dell’ARF!
Della partnership solidale di quest’anno con i valorosi ragazzi di Dynamo Camp. Difficile controllare la commozione durante il loro incontro, difficile sentirsi all’altezza di un percorso prezioso e costante come il loro. Un onore, affiancarli nella grande missione che hanno deciso di compiere.

  

Del Numero Zero di Mercurio Loi, nostra prima pubblicazione editoriale dopo i cataloghi delle mostre e realizzato con la collaborazione di Sergio Bonelli Editore e PressUp.


Dei ragazzi di Stay Nerd condotti dal grande Raffaele Giasi che non solo hanno contribuito in modo fondamentale a un indimenticabile Premio Bartoli, ma con le loro live hanno offerto anche a chi non poteva essere all’ARF! di incontrare tonnellate di autori.

Del lavoro del Comitato di Selezione e di quello dei Giurati di questa edizione, che hanno portato a uno splendido Premio Bartoli e a un grande Premio PressUp in cui, ancora una volta, ha vinto la qualità di una proposta ineccepibile, all’interno di nomination di valore assoluto.

Di Daniele, Stefano, Alessio e tutti i presenti che hanno ricordato con noi quel Mag che non dimenticheremo mai.


Del lavoro di Mirko Tommassino e di tutti i ragazzi di GeekArea che hanno ininterrottamente supportato per tre giorni il lato tecnico della Sala Incontri senza perdere mai il sorriso e trasmettendo ininterrottamente le live degli incontri.
Dei MERAVIGLIOSI E INSOSTITUIBILI volontari che ogni anno ci aiutano con un amore indescrivibile a parole. A Giorgio, Castagna, Olga, Ilaria, Arianna, Tommaso, Domenico e a tutti gli altri, va il grazie maggiore, perché senza di loro l’ARF! non esisterebbe.

 
Delle Fabs, a cui quest’anno s’è aggiunta una terza F in più che ci hanno portato lì, dove nessun ARF! era mai stato prima.
Di Lorenzo, Laura e di tutto lo staff al desk che ha risposto velocemente a qualsiasi assurda richiesta, persino – e soprattutto – alle mie!
Delle immagini di Giulia, che ha documentato col suo occhio attento e elegante le giornate del festival permettendoci di raccontarlo in tempo reale, di quelle di Lisa La Vegetariana che lo faranno in seguito e di quelle dei ragazzi dell’Associazione Fare Fotografia che hanno scattato buona parte delle immagini che vedete a corredo di questo post.
Di Sara Pichelli e dell’immagine che ha dato al nostro festival.

Un’immagine che poi s’è riverberata nei siti web, nelle televisioni, nelle metropolitane, sugli autobus, sui tram e nelle strade di quella stessa Roma che percorriamo tutti i giorni. Una Roma che ha smesso di essere noiosa per qualche settimana, colorandosi della sua Cappuccetto Rosso inquietante, ironica e sensuale.

Contento degli amici che sono passati a trovarci – portando con loro una miracolosa ‘nduja calabrese –

dei parenti che hanno partecipato immergendosi nel fumetto amplificando a dismisura il concetto di famiglia che ci lega e di ognuno dei presenti all’ARF! che mi ha abbracciato dicendomi quanto gli piacesse tutto quello che stava vedendo,

a chi ci ha aiutato con le sue critiche e a tutti quelli che hanno condiviso – e stanno condividendo – sui social, tutto il loro entusiasmo.

Del tifo e dell’appoggio delle nostre compagne, mogli, figli e mariti che ci hanno supportato nonostante la lontananza di queste giornate concitate.
Ma soprattutto, lasciatemelo dire, concludendo, sono felice, contento, onorato, di aver scoperto tre anni fa quanto possa essere bello organizzare un festival del genere, donarlo alla città e al mio mondo del fumetto, grazie a una sgangherata banda di fratelli insostituibili.

 

Stefano, Fabrizio, Gud, Lorenzo, Paolo, con voi, verso #ARF4 e oltre.
Verso l’ #ARF4 e oltre.
Grazie davvero.

E per quest’anno… è tutto!
O forse no?

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Il tempo di dimenticare.

28 gennaio 2017 da Mauro

Ho conosciuto Keo all’interno di una scuola superiore di Phnom Penh e lui me ne ha raccontato la storia.
Mi ha detto che quella scuola, fino all’inizio degli anni ’70, si chiamava Tuol Svay Prey High School e che era piena di ragazzi e ragazze che venivano da ogni parte della Cambogia. Mi ha detto che anche lui l’avrebbe frequentata, esattamente come stava facendo suo fratello più grande, ma di punto in bianco, quella scuola, venne trasformata in qualcos’altro.
Per cominciare, vennero cacciati via tutti gli studenti e nel grande piazzale antistante le aule, cadde per la prima volta il silenzio.

Poi gli ingressi vennero barricati con lamiere e centinaia di metri di filo spinato elettrificato.

Il nome davanti alla facciata venne cancellato e sostituito da una strana sigla: S-21.
Tempo dopo si sarebbe scoperto che S stava per Sala e che 21 era il codice segreto usato per identificare la Santébal, ossia la Polizia di Sicurezza del regime nazionalista dei Khmer Rossi guidati da Pol Pot.

Delle fitte reti elettrificate vennero utilizzate per suddividere i cinque edifici del complesso in aree adibite a nuovi utilizzi e tutte le finestre furono sbarrate con assi di ferro e (ancora) filo spinato.

Le aule vennero ridotte a piccole stanzette

e trasformate così in prigioni individuali e in lugubri sale per interrogatori e torture.

Le macchie di sangue che si vedono ancora oggi, a distanza di 40 anni, secche sui pavimenti, sono lì a pallida memoria delle atrocità che vennero commesse da secondini, giudici e torturatori a partire dall’Agosto 1975 e che durarono fino al 1979.
Inizialmente vennero internati i dignitari, i militari e i collaboratori del deposto governo di Lon Nol.

Interrogati, torturati e eliminati costoro, la struttura inizio ad ospitare i professionisti, gli intellettuali e tutta quella classe borghese in cui Pol Pot (o Fratello n.1, come aveva preso a farsi chiamare) era cresciuto. Tolti di mezzo anche loro, furono rinchiusi tutti i sospettati controrivoluzionari che avevano complottato per rovesciare il regime di Pol Pot e che pertanto subirono una epurazione capillare e di massa.

Poi, nell’ultima fase, la più terribile, vennero internati prigionieri provenienti da tutto il Paese, a cominciare proprio dagli ex-membri dei Khmer Rossi accusati di tradimento.

Con loro, vennero imprigionati e giustiziati regolarmente tutti i famigliari più stretti perché sospettati di connivenza o di mancata delazione alla polizia segreta, infrangendo la “devozione assoluta e totale” che il partito pretendeva dal popolo.

Si passò poi ai contadini che non producevano la quantità di riso richiesta dal nuovo regime, fino ad arrivare ai bambini e ai neonati, eliminati perché ritenuti incapaci di “totale purificazione e dedizione agli standard rivoluzionari” una volta che fossero divenuti adolescenti.

Delle circa 20.000 persone internate nell’ex scuola superiore Tuol Svay Prey High School soltanto 7 persone sopravvissero.

Grazie a quelle sette persone si ha oggi memoria di quanto accaduto tra quelle mura.
Grazie a quelle sette persone, quel luogo è oggi diventato il  Tuol Sleng Genocide Museum (“Tuol Sleng” in lingua khmer significa “collina degli alberi velenosi”)

un museo a testimonianza degli orrori accaduti durante il genocidio che portò alla morte di due milioni e cinquecento mila cambogiani. 
“In pratica, un cambogiano su quattro, venne ammazzato nel piano di sterminio attuato da Pol Pot e i suoi Khmer Rossi.” mi racconta lo stesso Keo mentre cammina con me nel silenzio assoluto del piazzale

e delle aule che ora ospitano i resti di quel che avvenne.

“E’ grazie a uno di quei soli sette sopravvissuti qui a Tuol Sleng, Vann Nath, che prima dell’arrivo del regime studiò in un’accademia d’arte e sapeva dipingere – e per questo venne spesso incaricato di eseguire dei ritratt di Pol Pot – che abbiamo potuto conoscere le tecniche di tortura che venivano applicate qui dentro.”

mi dice mentre passiamo tra dipinti che testimoniano l’orrore assoluto vissuto in quei giorni.

orrore accentuato dal fatto che, nel surreale delirio di rinascita voluto da Pol Pot, il suo esercito di aguzzini era composto per lo più da bambini tra i dieci e i quindici anni a cui prima venne ordinato di sterminare le proprie famiglie (i legami famigliari erano i primi che andavano spazzati via), poi di torturare i prigionieri in strutture come questa del Tuol Sleng e in molte altre sparse attorno alla capitale, infine di compiere i più efferati omicidi nei campi di sterminio nella zona di Choeung Ek.

Per obbligare i prigionieri a confessare qualunque crimine fosse stato loro imputato veniva utilizzato il metodo della tortura. Erano largamente impiegati l’elettroshock, vari strumenti metallici incandescenti e il metodo di tenere appesi per lungo tempo gli internati, seviziati anche in molti altri modi (immersione nell’acqua, ferite con armi da taglio, obbligo di mangiare i propri escrementi, bastonature e fustigazioni a sangue, strappamento delle unghie e dei denti, e, nelle donne, versamento di benzina nella vagina cui poi si dava fuoco). Nonostante buona parte dei prigionieri morisse comunque a causa degli abusi, l’esecuzione sommaria veniva evitata, dato che i Khmer Rossi avevano bisogno delle loro confessioni. Gli strumenti di tortura sono esposti al museo. La stragrande maggioranza dei prigionieri era innocente e le confessioni prodotte solo sotto tortura. Sono noti alcuni casi di prigionieri scorticati vivi. La violenza sessuale sulle donne era la norma, ed anche le bambine al di sotto dei dieci anni venivano regolarmente deflorate dai secondini. Alcuni prigionieri venivano sodomizzati o veniva loro inserito un uovo bollente nel retto.

E’ stato rinvenuto un manoscritto anonimo di cinque pagine, intitolato “Esperimenti su esseri umani”. Esso descriverebbe 11 “esperimenti” eseguiti su 17 persone (tra cadaveri e gente ancora viva). Il resoconto contiene brani come i seguenti:

  • “Una ragazza di 17 anni, con la gola e lo stomaco squarciati, immersa nell’acqua dalle 19:55 alle 9:20 del giorno dopo, quando il corpo comincia lentamente a galleggiare fino alla superficie, raggiungendola alle ore 11:00”.
  • “Un ragazzo di 17 anni, colpito a morte, immerso nell’acqua come nel caso precedente, con la differenza che il corpo giunge in superficie alle 13:17”.
  • “Una donna robusta, accoltellata alla gola, con lo stomaco asportato…”.
  • “Quattro ragazzine accoltellate alla gola…”.
  • “Una ragazzina, ancora viva, con le mani legate, immersa nell’acqua…”. Esisteva una doppia contabilità per potersi assicurare che tutti gli epurandi da giustiziare in quel giorno specifico venissero effettivamente uccisi, in quanto l’elenco dei condannati era controllato nome per nome e spuntato a penna all’uscita di Tuol Sleng ed analoga procedura veniva seguita man mano che ogni singolo condannato perdeva la vita. Gli elenchi poi venivano conservati nell’archivio di Tuol Sleng.Dopo gli interrogatori, i prigionieri e le loro famiglie venivano condotti al campo di sterminio di Choeung Ek, ad una quindicina di chilometri da Phnom Penh. Lì venivano uccisi con sbarre di ferro, picconi, machete e molte altre armi improprie. Alle vittime raramente veniva sparato, in quanto le pallottole erano giudicate troppo preziose per essere utilizzate a tal fine.(fonte Wikipedia)

 

A quel punto, Koe mi chiede se voglio entrare nella sala che mostra foto e reperti da Choueng Ek, il più noto tra i campi di sterminio in cui persero la vita migliaia e migliaia di cambogiani.
Acconsento.
Solo la vista delle foto delle deportazioni suscita raccapriccio

  

ma a queste si aggiungono l’esposizione di trecento crani riesumati che servirono per realizzare la cosiddetta “Mappa dei Teschi” che venne poi rimossa nel 2002.

e soprattutto, i dipinti di Vann Nath che venne chiamato, grazie all’arroganza e la supponenza dei giovani Khmer Rossi, a raccontare anche le oscenità che avvenivano nei campi di sterminio, dove gli uomini morivano bastonati e alle donne incinta veniva permesso di portare al termine la gestazione solo per l’oscena crudeltà di farle assistere alla morte del neonato, massacrato subito dopo il parto.

Mentre Koe mi racconta queste cose, i suoi occhi non si inumidiscono mai.
C’è un distacco enorme tra ciò che racconta e il modo cantilenante con cui lo fa, sicuramente frutto dell’abitudine e dell’aver a che fare ogni giorno con questa storia.
Io invece voglio uscire da quelle aule, ho bisogno di aria e vento, forse di un po’ di sole.


L’ultima foto che vedo prima di uscire da lì è quella di una mostra che sta per iniziare.
“E’ per i bambini delle scuole inferiori, ogni giorno vengono in visita qui da scuole diverse.”

Nel piazzale silenzioso, gli chiedo quanti anni ha.
Poco più di cinquanta.
Mi chiede quanti ne ho io. Quanti ne ha Martina che è lì con me.
Stemperiamo l’orrore di queste morti raccontandoci un po’ delle nostre vite e scopriamo che è sposato e ha dei figli.
Mi racconta l’esigenza di ricostruirsi una famiglia dopo che durante il genocidio aveva perso entrambi i genitori, il fratello e una nonna.
Di fronte alla nostra espressione perplessa riguardo a quest’ultima informazione, ci sorride: “Prima non mi avete ascoltato con attenzione, allora! Un cambogiano su quattro è morto in quegli anni, quindi OGNI cambogiano che vi capiterà di incontrare qui a Phnom Penh con molta facilità avrà decine di parenti sterminati durante l’eccidio. Sarà un sopravvissuto dell’eccidio.”

C’è un sorriso consapevole nelle sue parole.
“Vogliamo andare ai Killing Fields?”, ci chiede.

Gli rispondiamo che non lo sappiamo. Siamo decisamente scossi.

“Vedete che è bello, lì. C’è un’atmosfera calma, una volta era un frutteto.”

E allora accettiamo, e saliamo insieme a lui su uno dei tanti tuktuk che ci aspettano fuori dal museo.

Ha ragione.

Tutta l’area del memoriale restituisce una pace assoluta. Lo Stupa buddista sul fondo, termine della visita, appare come un omaggio sobrio e sacro e la passeggiata per raggiungerlo è tra gli alberi e i prati di una zona davvero tranquilla e lontanissima dal caos della capitale.

La terra non è piana, ma è costellata da una serie di piccole collinette.

“Sono le fosse comuni che ancora non sono state aperte e bonificate.”

dice Keo e io devo sedermi, riprendere fiato, capire.

Ci racconta che finora solo 86 fosse comuni sono state aperte, ma ben 43 devono essere ancora portate alla luce.
Ci racconta che solo diecimila cadaveri sono stati liberati – usa proprio quest’espressione qui – e chissà quanti ancora attendono.
Ci racconta che, giunti qui da Tuol Sleng, i prigionieri venivano costretti a scavare da soli la propria fossa e poi venivano uccisi a bastonate o a coltellate – i neonati, come rappresentato nei quadri di Vann Nath, venivano soppressi sbattendoli violentemente contro un grande albero o infilzandoli con le baionette davanti alle loro madri – dai Khmer Rossi che, ce lo ricorda, spesso non avevano più di tredici anni.


Ci racconta che il tutto avveniva dopo un meticoloso controllo operato dall’addetto alle liste dei condannati. Così meticoloso che alcuni di questi elenchi di nomi sono pervenuti fino a noi, intatti, e sono presenti nel memoriale.
Ci racconta anche che il terreno è talmente fragile a causa delle forti e frequenti piogge che purtroppo, spesso, alcuni di questi cadaveri, anzi, parti di questi cadaveri, vengono alla luce spontaneamente e siccome il personale dell’area non riesce a intervenire in tempo, viene richiesta la collaborazione dei visitatori per raccogliere e mettere da parte nelle apposite teche, eventuali vestiti o resti, come la mascella che noi stessi depositiamo sul plexiglass.

Sembra impensabile conversare tranquillamente di orrori simili e sembra impensabile che tutto ciò sia davvero accaduto nella seconda metà degli anni settanta, sotto gli occhi di un mondo che, da una parte, faceva finta di nulla, dall’altra si lanciava persino in sperticate lodi in onore di Pol Pot (al qual venne dedicato, nel giorno della sua morte, anche una accorato ricordo declamato nel parlamento italiano da Giovanni Scuderi segretario generale del Partito Marxista-Leninista Italiano).
Davanti alla vista dell’albero più antico presente nel frutteto, Keo ci dice che è tradizione cambogiana costruire le scuole nelle vicinanze dei vecchi alberi perché gli riconoscono la caratteristica di esseri viventi antichi e quindi saggi.

“Quell’albero ha visto la nostra storia e le nostre tradizioni e noi quello insegnamo nelle nostre scuole.”

Per questo lui prova un dolore enorme nello spiegarci il carico simbolico della scelta di uccidere i neonati proprio abbattendoli contro gli alberi più antichi, in segno di sfregio verso la sacralità dell’uomo, del crescere, del sapere e della storia.

Ci chiudiamo tutti e tre in un silenzio carico di sensazioni, sollevate solo dalla vista di tutti quei braccialetti colorati in onore dei neonati soppressi.

Quando arriviamo al cospetto del memoriale vero e proprio, dello Stupa, scoprire quel che da lontano non poteva essere intuibile ci mette nei panni di quello stesso mondo che poco più di trent’anni fa, non vedeva quello che accadeva sotto i suoi stessi occhi.

Uscendo da lì mi avvicino a Keo e gli chiedo una cosa che mi tengo dentro da ore per paura di offenderlo o di entrare troppo nella sua intimità, ma c’è qualcosa che devo capire.
Deposto il regime di Pol Pot e liberata la Cambogia, una serie di processi farsa hanno fatto sì che nessuno pagasse realmente per quanto successo, e lo stesso Pol Pot visse serenamente fino al 1994.
Come lui, quindi, anche tutti i Khmer Rossi che hanno sterminato la sua famiglia e praticato quegli orrori, che all’epoca erano poco più che bambini e che oggi, quindi, non avranno neanche cinquant’anni.
Capisce dove voglio andare a parare e mi dice:

“Certo, tutti vivi, tutti liberi, e la maggior parte di loro vive proprio qui, a Pnom Pehn. Li incontro tutti i giorni della mia vita.”

E allora gli chiedo come si fa ad accettare tutto questo? Come fa a non venire voglia di restituire quel che si è ricevuto? Come si riesce a camminare serenamente per strada e guardare negli occhi gente che quando eri più piccolo ti ha portato via la famiglia, trasformando la nazione in un inferno inconcepibile?

E lì Keo si siede e inizia a parlare.
Per la prima volta non si limita a brevi periodi ma instaura un discorso appassionato e sincero.
Mi spiega che i motivi sono diversi.
Mi parla della paura.
Sì, della paura, perché dice che le deportazioni dei Khmer Rossi sono cominciate dal nulla, da un giorno all’altro, e improvvisamente il loro modo di vivere è stato estirpato.

“E il mio terrore più grande è che tutto questo possa accadere di nuovo.” Mi dice.
“Immagina: io e un gruppo di altri pazzi domani ci svegliamo e iniziamo a cacciare tutti quelli che appartenevano ai Khmer Rossi – perché li conosciamo tutti, eh. La sera beviamo negli stessi posti – li prendiamo, li rinchiudiamo e ricominciamo un nuovo 1975. E questo a cosa porterebbe? A rivivere esattamente quello che noi, tutti noi, vogliamo assolutamente dimenticare.”

Rimango perplesso di fronte a quella parola e ribatto che no, non devono dimenticare anzi, devono ricordare proprio affinché quella roba non succeda più.
E lì mi ferma di nuovo:

“No, è troppo presto. la Cambogia si deve lasciare alle spalle quanto successo, deve andare avanti. Rialzarsi. Recuperare. Crescere. In un certo senso non restare imprigionata in quello che è accaduto, ma guardare avanti. Abbiamo troppa paura che tutto possa ripetersi, e per non farlo accadere, non dobbiamo voltarci indietro, ma guardare il più avanti possibile. Costruire sopra queste macerie. Seppellire i ricordi e provare a costruire un futuro insieme. Anche insieme a quegli assassini. Per quanto questo mi faccia stare male. Ma guardarli, e ricordare, è peggio. Erano piccoli, facevano quello che gli era stato detto di fare. Ricordarci com’erano fa tornare la paura, dimenticarcelo e pensare a quel che sono oggi, ci può far andare avanti.”

Ascolto con attenzione le sue parole e mi viene da pensare che noi invece abbiamo istituito una Giornata della Memoria per gli orrori dell’Olocausto. Proprio per ricordare quel che è successo. Per averlo ben stampato in mente. Per non dimenticare.

“E’ troppo presto.” Mi dice Keo. “Per ricordare, ci vuole il tempo di dimenticare.”

Ci abbracciamo. Ci salutiamo. Io e Martina continuiamo il nostro viaggio per l’Asia.
Torniamo in Italia. Facciamo un figlio. Cambiamo casa. Lo cresciamo. Cresciamo noi.
E ancora oggi ripenso alle parole di Keo.

“Per ricordare, ci vuole il tempo di dimenticare.”

Mi viene un pensiero.
Cerco su Wikipedia “Giornata della memoria”. L’articolo comincia così:

Il Giorno della Memoria è una ricorrenza internazionale celebrata il 27 gennaio di ogni anno come giornata in commemorazione delle vittime dell’Olocausto. È stato così designato dalla risoluzione 60/7 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1º novembre 2005.

Il primo novembre del 2005.
C’abbiamo messo cinquant’anni per arrivare a celebrare il Giorno della Memoria.
Cinquant’anni.

“Per ricordare, ci vuole il tempo di dimenticare.”

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Solo copertina mini

Non credevo sarebbe mai successo.
Sul serio.
Da quando io e Marco avevamo ricevuto la notizia che la casa editrice per cui avevamo realizzato Almeno un minuto insieme, avrebbe chiuso i battenti da lì a poco e quindi tutto il lavoro che avevamo fatto sarebbe andato perso, la vita era andata avanti, e noi eravamo stati tante di quelle cose diverse, che il ricordo di quei nove racconti (e mezzo) ormai non era più che il frammento di un rimpianto lontano.
Oltretutto, avevamo anche fatto pace col fatto che quelle storielle sarebbero rimaste inedite, le sentivamo troppo vecchie e tirando una linea ci rendevamo conto che ognuna di loro, in un modo o nell’altro, ci aveva già ridato qualcosa indietro per ringraziarci di averla inventata e raccontata.
Ma la vita, si sa, è quella cosa che accade mentre ti scaccoli in un pomeriggio d’estate trovando la forza di tenere gli occhi aperti e non addormentarti, e proprio lì, tra la veglia e il sonno, è nata la voglia, a un mese da Lucca Comics, di tirarle fuori dal cilindro.
Di far uscire queste storie, di liberarle. Di getto, d’impulso, senza pensarci troppo, perché davvero, a pensarci ci saremmo convinti che sarebbe stato meglio lasciarle lì dov’erano.
E invece no.
La donna rossa

donna rossa

i due amanti,

Per me il coltello

il Bambino che ha spento le stelle,

bambino stelle
la vecchia Katie,

Il gioco di Katie

la buffa Chiara,

chiara

il padrone di Pink,

mio desiderio

la bambina incinta,

ninnananna

il Ragazzo,

Il ragazzo

il Bambino di ferro,

Bambino di ferro

l’Uomo Orso,

Uomo Orso

dovevano finalmente lasciare le nostre casse toraciche e cercare il loro posto da qualche parte nel mondo, come facciamo tutti.

Ed ecco come nasce la nuova vita di ALMENO UN MINUTO INSIEME, in famiglia, tra fratelli di sempre e padri di sempre, senza pensarci così tanto da ripensarci.
Pubblicato da Nuvoloso Edizioni e presentato in anteprima a Lucca Comics & Games allo stand E330 di Uno Studio in Rosso, al padiglione del Giglio e poi venduto online, Almeno un minuto insieme è adesso un libro vero.
Che esiste. C’è. E sarà dedicato e disegnato personalmente a ognuno di quelli che vorranno portarsi a casa un pezzo delle nostre vite e una raccolta di racconti che parlano di quel minuto specifico, che abbiamo vissuto tutti, in cui abbiamo davvero bisogno che qualcuno ci resti accanto.
Oltre alle immagini che trovate a corredo di questo post, vi lascio il link di Fumettologica dove potrete leggere un racconto completo in anteprima

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(ci arrivate CLICCANDO QUI)
e vi dico che OLTRE a Almeno un minuto insieme, trovate in vendita anche, in edizione limitata, LA SCENEGGIATURA completa di tutto il volume,

aumi Scen 01

con le splendide tavole di Marco Marini a fronte

AUMI Scen02

così da poter sbirciare dietro le quinte per scoprire tutte le piccole cose che sono cambiate in corso d’opera

Aumi Scen 03

e capire come nasce un fumetto, dalla sua ideazione, fino al lettering sulle tavole disegnate.

Spero vi piacerà entrare in questi nove racconti (e mezzo) così come da sedici anni piace a me e Marco tornare a sfogliarli ogni tanto.
Concludo lasciandovi con l’introduzione presente nel volume, in cui vi racconto cos’è successo in questi sedici anni e perché dobbiamo così tanto a questo volume, finora inedito.
Buona lettura, ci vediamo nei fumetti.

Almeno sedici anni insieme

Nel duemila io avevo vent’anni, i capelli lunghi – spesso verdi – e lo smalto nero sulle unghie, Marini invece era già vecchio saggio.
Pubblicavamo racconti pornodepressi per Blue e avevamo fondato con Alessandro Bilotta, Emiliano Mammucari e Franco Urru, una casa editrice chiamata Montego che fece un sacco di belle cose, una sola cosa brutta e una cosa bruttissima.
Le cose belle le potete rintracciare online e sono riassumibili in una manciata di titoli che si fecero notare e lanciarono diversi di noi nel meraviglioso mondo della nona arte, la sola cosa brutta, è che a un certo punto, la Montego, chiuse.
La cosa bruttissima è che quando chiuse, io e Marco, avevamo appena finito Almeno Un Minuto Insieme, un volume di racconti in cui un ragazzino ambizioso (ma ancora abbastanza incapace) e un disegnatore della madonnissima, avevano deciso di raccontare il timore dell’abbandono e la necessità di avere qualcuno vicino “almeno per un minuto” attraverso una serie di piccole storie realizzate ognuna con una diversa tecnica di scrittura e di disegno, per sottolineare la diversa unicità di tutti i personaggi raccontati.
Un impegno notevole che vedendosi ripagato con la chiusura della casa editrice ci getto in uno sconforto tale che i Radiohead, al confronto, sono Rocco Tanica. Dall’alto della nostra epicità tardoadolescenziale, levammo scudi di diti medi e ci nascondemmo saldamente alla loro ombra.

Poi, cominciarono ad accadere le cose.
La prima delle cose fu che Il Bambino che ha spento le stelle, il primo racconto presente in quell’antologia inedita e sfigata, che girava solo sotto forma di menabò tra gli addetti ai lavori, venne notato dal direttore tecnico di una società che si occupava di animazione e postproduzione, e venne comprato per essere poi trasformato in un cortometraggio.
Questa cosa portò Marini e il sottoscritto a iniziare a lavorare prima per il magico mondo della televisione per cui ideammo e girammo un certo numero di spot televisivi e videoclip musicali, poi per quello del cinema per cui realizzammo diversi lungometraggi d’animazione.

Non solo, il racconto Il Gioco di Katie, venne scelto per essere pubblicato sull’antologico Alta Fedeltà, aprendoci nuovamente le porte del mondo del fumetto, e l’originale immagine di copertina di Almeno un minuto insieme, divenne prima l’header del mio blog Non ti stavo cercando, grazie al quale inizio a scrivere per diverse testate cartacee e online, e poi la copertina del piccolo romanzo omonimo che ho pubblicato lo scorso anno e che grazie alla benevolenza di troppe persone è andato subito esaurito.
Potrei farvi decine di altri piccoli esempi, ma credo questi bastino per farvi capire due cose.
La prima, è che il volume che tenete tra le mani, ha accompagnato silenziosamente la mia vita e quella di Marco e nonostante ormai si porti appresso i suoi begli anni, noi gli vogliamo un bene infinito, e siamo contenti che finalmente possiate leggerlo e sfogliarlo.
La seconda è che, a conti fatti, quello che per un periodo abbiamo vissuto come il nostro più grande fallimento, è stato il progetto più importante delle nostre vite, quello a cui sinceramente dobbiamo tutto quel che siamo e che speriamo di continuare ad essere ancora a lungo.
Per cui, non condannate i vostri fallimenti e anzi, coccolateli, perché forse è proprio lì, in quel luogo oscuro, che si annida la svolta delle vostre vite.

Mauro Uzzeo – Ottobre 2016

 

 

 

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Come vi raccontavo un po’ di tempo fa, per l’ultima edizione di Lucca Comics & Games ho scritto e stampato qualcosa che somiglia a un libro.
E’ stato un esperimento strambo.
Per l’immane rispetto che provo nei confronti della letteratura non avrei mai trovato il coraggio di scriverlo per davvero, un libro, per questo mi sono imposto una regola: l’avrei scritto solo in due notti, senza mai tornare indietro a rileggere i capitoli già scritti.
Una specie di flusso di coscienza produttivo. Un gesto punk. Buona la prima.
Questo ha generato una storia super emotiva und sentimentale, che ho letto io stesso, per la prima volta, soltanto dopo che era già stata stampata (e a proposito, ehm… un paio di refusi mi sono sfuggiti…), e che speravo potesse comunque suscitare l’interesse di qualcuno.
La mia speranza venne presto ricompensata ben oltre le mie più rosee aspettative.
Delle trecento copie di tiratura totale e numerata (che non sarà MAI ristampata, come è scritto anche all’interno del libro), le duecento che ho portato con me a Lucca, sono scomparse in tre giorni.
Mentre ero presente allo stand a dedicarle, e a ringraziare personalmente ognuna delle persone che aveva dato fiducia a quel libro piccolo, ho fotografato ognuno di loro, chiedendogli di poterli mettere tutti insieme in un poster presente in un resoconto che avrei pubblicato più in là.
Questo resoconto qui, appunto.
In cui prima prima vi dico di cliccarla, quell’immagine lì in alto, perché diventa ENORME. Prendetevela, sbattetela su Facebook e taggatevici dentro, consideratevi per sempre ringraziati.
E poi vi informo che, dopo aver dedicato altre cinquanta copie di Non ti stavo cercando nei due incontri che ho fatto a Torre del Greco e a Marino, sono qui con le ultime cinquanta.
Queste qui sono le ultime cinquanta copie.

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Vendute queste, Non ti stavo cercando, non esisterà più, e tornerà a essere un segreto tra me e trecento amici (che di solito, quando racconto un segreto a qualcuno, sono sempre e comunque trecento quelli che lo vengono a sapere!).
Se ne volete una copia, è il momento di chiederla.
Scrivetemi in privato su Facebook, oppure mandatemi una mail premendo semplicemente il pulsante lissù con scritto “Scrivimi” e vi darò tutte le info per ricevere la vostra copia, dedicata, nel minor tempo possibile!

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Questa sera mi ritroverò a fare una roba bizzarra.
Sarò ospite dell’ALT di Torre Del Greco e, a differenza dei soliti incontri nelle librerie in cui ci si limita a presentare il progetto più recente e a rispondere a qualche domanda, la serata si trasformerà in un vero e proprio evento/viaggio, tra le storie che ho raccontato e quelle che ho vissuto.
Si parlerà di Orfani, sicuramente, si parlerà di Monolith, dell’ARF! FESTIVAL, dei videoclip musicali e si parlerà anche molto di Non ti stavo cercando, il mio piccolo libro presentato alla scorsa Lucca.
Proprio prendendo spunto da Non ti stavo cercando, in larga parte ambientato in Thailandia, coi ragazzi dell’ALT abbiamo deciso di metterci ai fornelli e alternare, tra una domanda e l’altra, tra una lettura e l’altra, la cucina di un piatto tipico della cucina thai: una zuppa di melanzane al curry cotte ne latte di cocco e servite in delle coppe piene di riso bianco.
Per cui, se vi va di passare a trovarci, oltre a chiacchiere e risate, vi assicuriamo anche una buona cena.
Orari e indirizzo li trovate nella foto in alto.
Prima di chiudere questo post, però, vi chiedo due minuti di attenzione per spiegarvi cos’è l’ALT e cosa sono riusciti a tirare su questi ragazzi con la sola forza della loro caparbietà.
Lascio quindi la parola a Simona Di Rosa, Segretario di ALT:

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ALT! è un’associazione culturale no profit che nasce il 17 Gennaio 2013 dall’idea di cinque amici strampalati, con l’obiettivo di promuovere il bello, soprattutto attraverso i linguaggi della letteratura e del fumetto, nella nostra città, alla quale siamo visceralmente legati. Ne è passata di acqua sotto i ponti da quel lontano Gennaio 2013, ma soprattutto tantissimi autori di libri e fumetti sono passati per ALT!: tra questi, ricordiamo Daniele Fabbri e Stefano Antonucci, Paolo Castaldi, Alessandro Bilotta, Alessio Spataro, Pasquale Qualano, Fabrizio Fiorentino, Lucilla Stellato e Antonella Vicari, Bruno Brindisi, Pino Imperatore, Antonella Cilento, Maurizio de Giovanni, Angelo Carotenuto, Stefano Piedimonte, Alessio Arena. Il servizio principale che offriamo ai nostri soci è quello della Biblioteca, con più di 500 titoli tra libri e fumetti da poter prendere in prestito. La nostra caratteristica principale è sicuramente l’audacia: quando siamo riusciti a trovare una sede, ne abbiamo voluta una più grande; quando abbiamo pensato di produrre uno spot pubblicitario, abbiamo scelto la strada più faticosa;

quando la nostra attività di promozione culturale sembrava completata, abbiamo affiancato un comparto produttivo, anzi, autoprodotto, con la pubblicazione di art book e fumetti che ci hanno permesso di partecipare allo scorso NapoliCOMICON; quando ci siamo visti chiudere in faccia le porte degli enti locali, ci siamo rivolti alla Comunità Europea, con cui abbiamo portato avanti un Training Course Internazionale alla scoperta dei miti e delle leggende di cinque Paesi europei. Ogni volta che i nostri ospiti ci dicono che sono felici di venire da ALT!, perché di noi si parla bene, perché qui il lavoro (volontario) è ben fatto, ci vengono i lucciconi.

Perché lo facciamo?

Perché abbiamo un bisogno viscerale di far qualcosa. E questo “qualcosa” che facciamo è bellissimo, ci emoziona e ci diverte e ci sfida, e a noi piace ritrovarci a misurare i nostri sorrisi stanchi alla fine di un lavoro ben fatto. E’ come se la stanchezza scomparisse. E’ magia.

E a me non resta altro da fare se non ringraziarli per quello che fanno. Perché portare stimolo e cultura all’interno del proprio territorio è una missione che non andrebbe mai dimenticata. Applausi per loro.

Contatti: sito: www.associazionelettoritorresi.it

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Ieri, dopo aver visto una puntata de L’Albero Azzurro insieme a GZ, ho sentito il bisogno di inviare una lettera aperta al piccolo Dodò. Eccola qui:

Caro Dodò,
stamattina ero sul divano con GZ, c’era anche Babau Gande, e guardavamo l’Albero Azzurro mentre facevamo colazione. C’erano Gipo e Laura che parlavano con la Magica Fogliolina che ti insegna ogni volta le parole dette nelle altre lingue, e la parola di oggi era FAMIGLIA. 
Non so se la scelta degli autori sia andata volontariamente sul tema caldo del momento, ma ero pronto a vedere come avrebbero affrontato l’argomento, considerato il delicatissimo target di riferimento.
Come temevo, ti hanno insegnato che la famiglia è solo ed esclusivamente quella composta da papà (“Il Re della casa”), mamma (“la Regina della casa!”) e figlio (“Il Principe di casa!”), con tanto di disegnini esplicativi del trittico felice che si teneva per mano.
Ora – senza entrare nel merito delle coppie formate da sole donne o da soli uomini che, per quanto mi riguarda, hanno tutto il diritto di poter crescere dei figli serenamente – io credo che il modello “famigliare” proposto dalla fogliolina e dagli autori de L’albero Azzurro sia stato un passo falso, e che si sia sprecata l’occasione per spiegarti semplicemente, caro Dodò, che la famiglia è un nucleo composto da persone che crescono insieme, volendosi bene, spesso uniti da un legame di parentela.
Perché sai che c’è Dodò? Che stamattina le mie amiche che stanno crescendo dei bimbi senza un papà al loro fianco, così come i miei amici che li stanno crescendo senza la mamma, avranno dovuto tranquillizzare i loro figli, che stavano guardando Rai YoYo, facendogli capire che anche la loro è una famiglia. Anche la loro che è composta, magari, da una mamma sola e tanti nonni. O zii. O amici.
Presentare, nel 2016, un unico modello famigliare significa discriminare non solo le persone, ma la realtà del mondo che ci circonda. Negandola e costringendola in degli schemi che creano soltanto distanza.
L’opposto, quindi, di quello che sempre e sarà una famiglia.
Dodò, pensaci tu a far ragionare quegli adulti scemi. 

Ciao da me, GZ, mamma Meme e da Babau Gande.

L’eco che questa lettera ha avuto sui social è stato molto più grande di quello che mi aspettavo, è stata condivisa da centinaia di persone, è rimbalzata su diversi siti, e alla fine è arrivata tra le mani di una persona che conosce molto bene Dodò e l’Albero Azzurro.
Una persona che ha condotto la trasmissione per cinque anni consecutivi e che, ora che vive col suo uomo e le sue due splendide bambine, s’è anche preso la briga di rispondere alla mia letterina.
La sua è una risposta molto bella e dimostra la grande professionalità degli autori coinvolti in un programma, solitamente, davvero ben fatto.
Eccola:

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Non Ti Stavo Premiando 2015: CINEMA!

30 dicembre 2015 da Mauro

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Cinema. Musica. Fumetti.
In tre articoli, le mie classifiche su tutto quel che di fondamentale è uscito nel 2015.
Alcuni di questi titoli potrete trovarli facilmente, altri potreste faticare un po’, ma ne vale la pena.
Il criterio di selezione è stato rigorosissimo: tutto quello che m’ha fatto venire un coccolone la prima volta che l’ho visto/ascoltato/letto e che, nonostante il passare dei mesi, non ne ha voluto sapere di andarsene dalla mia testa.
Ovviamente, come per ogni classifica, lo scopo è divulgare, far conoscere, litigare a morte.

Si comincia col cinema.
Buon divertimento.

NON TI STAVO PREMIANDO 2015 – CINEMA

Posizione n. 1

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Anomalisa
di Charlie Kaufman e Duke Johnson
Stati Uniti

Il più bel film del 2015 è un inno al racconto, dalle origini ai giorni nostri. C’è un uomo e c’è una donna. Ci sono le loro rappresentazioni. Ci sono le marionette. C’è il teatro greco. C’è la più raffinata tecnica di stop motion al servizio dell’unica storia che non ci stancheremo mai di ascoltare: quella di chi improvvisamente s’innamora di un’anomalia e farà di tutto per conquistarla.
Charlie Kaufman produce, scrive e dirige (coadiuvato da Duke Johnson) il suo film più emozionante dai tempi di Eternal Sunshine Of The Spotless Mind.
Dopo l’anteprima al Festival del Cinema di Venezia, esce in sala negli Stati Uniti oggi, fate di tutto per vederlo in lingua originale e quando lo vedrete, capirete perché è così importante.
Cliccando QUI potete leggere la mia recensione approfondita per La Repubblica – XL.
Il trailer:

Posizione n. 2

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Mad Max: Fury Road
di George Miller
Australia, Stati Uniti

All’alba dei 70 anni, George Miller, l’uomo dalla carriera registica più delirante del mondo, dopo i due Happy Feet e Babe Maialino Coraggioso, torna a dirigere un nuovo tassello della sua saga più celebre. Via Mel Gibson e Tina Turner, dentro Tom Hardy e Charlize Teron per 120 minuti di pura meraviglia visiva.
Miller utilizza i corpi come macchine, il sangue come carburante, la sabbia del deserto come polvere che sporca i cieli e la pelle facendola gialla e metallizzata al grido di un edonistico vortice adrenalinico che per tutta la durata della pellicola non si ferma mai e anzi accelera e accelera e accelera togliendoci il fiato e riscrivendo le regole di quel genere action ormai in mano a troppi pischelli e a pochi grandi vecchi che ancora hanno molto da insegnare.
Tutto è perfetto in questa messa in scena che è lo stato dell’arte del mestiere del cinema. Della scenografia. Della fotografia. Della recitazione. Dell’uso degli effetti visivi, tanto di quelli analogici quanto di quelli digitali.
La dimostrazione di come possa essere possibile aggiornare dei franchise rendendoli attuali e universali.
Da vedere e rivedere.

Il trailer, graziato da un montaggio fuori scala:

Posizione n. 3

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11 Minut
di Jerzy Skolimowski
Polonia

Da un settantenne a un settantasettenne. Dalla riscrittura dell’action moderno alla visione della modernità che investe l’uomo incastrandolo quotidianamente in un puzzle di destini incrociati cui bastano 11 minuti per cambiare intere esistenze.
Il veterano Skolimowski dimostra una lucidità fuori dal comune elevando il suo cinema di un gradino ancora più alto di quanto già ci aveva abituato ma riportandolo a quella forza primordiale che è presente, anche se ben nascosta, fin dal primo minuto del film e che non vede l’ora di deflagrare nell’apocalittica conclusione.
E noi siamo tutti lì, a gridare e ad alzare le mani verso l’alto come quando le band distruggono gli strumenti nella catarsi finale di un concerto punk.
Nella sua (apparente) semplicità, un’esecuzione magistrale.
Cliccando QUI trovate la mia recensione approfondita.

Il trailer:

Posizione n. 4

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Vizio di Forma
di Paul Thomas Anderson
Stati Uniti

Smarcandosi dal capolavoro (There Will Be Blood) e da una noiosa masturbazione (The Master) Anderson continua a premere forte sul pedale dell’ambizione ma stavolta non dimentica di essere un maestoso narratore per immagini. Ci regala così un oggetto unico, di non facile decifrazione ma dalla potenza accecante. L’america tossicona degli anni ’70, il noir sotto acido di Thomas Pynchon prende la forma di quel grande romanzo americano che avrebbero amato i Cohen del Grande Lebowsky e che oggi è più vivo che mai. Di nuovo Joaquin Phoenix, di nuovo uno stato di grazia, di nuovo un cinema GIGANTE che urla forte la sua vitalità. Ancora, P.T.A. daccene ancora.

Il trailer:

Posizione n. 5

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The Assassin
di Hou Hsiao-hsien
Taiwan

A otto anni di distanza dal suo ultimo film, il maestro taiwanese si ripresenta al pubblico affrontando il più classico dei generi orientali, quel wuxiaplan che vede come protagonisti gli eroi delle leggende che si sfidano a colpi di arti marziali.
Un’opera anomala nel percorso di Hou che si diverte a scardinare ogni regola del genere e a stupire con una cura per l’immagine che non ha eguali nel mondo orientale e pochissimi termini di paragone in quello occidentale. La fotografia sublime di Mark Lee Ping Bin gioca coi colori e col bianco e nero dimostrando una rigorosa assenza di limitazioni quasi a fare da contraltare alla costante battaglia contro i limiti che invece affronterà la giovane guerriera Nie Yinniang.
Per questo film, Hou Hsiao-hsien ha vinto la Palma d’Oro a Cannes come miglior regista.

Il trailer:

Posizione n. 6

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Whiplash
di Damien Chazelle
Stati Uniti

Scritto e diretto dal 29enne Chazelle, Whiplash ha scatenato una ridda di polemiche tra chi ci ha voluto vedere una riproposizione in chiave jazz del rapporto tra il sergente Hartman di Full Metal Jacket e i suoi soldati e chi l’ha interpretato con la solita retorica americana dell’ossessione a tutti i costi per arrivare a raggiungere i propri sogni.
Cazzate.
Lasciate stare il jazz. Lasciate stare il sacrificio. Whiplash è in realtà la storia di due uomini alla ricerca del loro fottuto, perfetto, tempo. Un tempo che non dev’essere troppo veloce, non dev’essere troppo lento, ma che li vedrà scontrarsi, tradirsi, ritrovarsi e uccidersi prima di arrivare a un finale così perfetto da culminare in un nero pieno, al momento giusto.
J.K. Simmons, titanico.

Il trailer:

Posizione n. 7

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Non Essere Cattivo
di Claudio Caligari
Italia

Ho pianto tantissimo.
L’ultimo film di Claudione Caligari, uscito postumo dopo la sua morte, chiude a tre il numero dei suoi film per il cinema dopo una dignitosissima carriera da documentarista. Già molto malato prima di iniziare le riprese di Non essere cattivo, parlando con Valerio Mastandrea, attore protagonista del suo L’odore della notte, Caligari gli disse: “Muoio come uno stronzo, e ho fatto solo due film.”
“‘C’è gente che ne ha fatti trenta ed è molto più stronza di te”, gli risponderà l’attore romano, che di Caligari era anche un grandissimo fan.
E proprio a Mastandrea si deve la riuscita e la finalizzazione di questo che è il vero e proprio testamento artistico e spirituale di Caligari. Un’opera che non solo cita e omaggia il suo percorso ma diventa il naturale compimento in quella che è una preghiera laica di speranza e forte umanità.
Niente è più vero della periferia raccontata da Caligari. Niente è più vero delle sue case, delle sue strade, della sua spiaggia, di quel mare sporco e di quelle facce cattive che è impossibile non amare, in questo caso interpretate perfettamente da Luca Marinelli e Alessandro Borghi.
Vorrei farvi vedere subito il trailer ma prima preferisco farvi leggere la toccante lettera che scrisse proprio Mastandrea in occasione della morte del regista:

« (Senza) parole. ‘Muoio come uno stronzo. E ho fatto solo due film’. Se n’è uscito così, ad un semaforo rosso di viale dell’Oceano Atlantico circa un anno fa. Stavamo andando insieme a parlare con un amico oncologo in ospedale. La risposta ce l’avevo pronta ma l’ho lasciato godere di questa sua epica attitudine alle frasi epiche che accompagneranno per sempre tutti quelli che lo hanno conosciuto. Ho aspettato il verde in un altrettanto epico silenzio (sono molti anni che era stato operato alle corde vocali). Ripartendo ho detto ‘c’è gente che ne ha fatti trenta ed è molto più stronza di te’. Il suono leggero della sua risata soffocata mi ha suggerito il suo darmi ragione, confermato dall’annuire ripetuto della sua testa grande. Di gente stronza Claudio se ne intendeva, ne ha conosciuta tanta, e tanta ne ha liquidata con quel metro di giudizio.

Stronzo è una parola che detta da lui aveva un altro significato. Più potente. Più profondo. Il nord ‘di lago’ da cui proveniva deve avergli dato una dimensione molto particolare nello scegliere le parole e nella forza con cui scagliarle. E le parole che gli mancavano da parecchio tempo è sempre riuscito a fartele sentire anche se arrivavano scariche di suono. La grandezza di un uomo così viene anche da questo. Dal poter fare a meno delle armi convenzionali che servono per vivere la vita e dal continuare a battagliare con ogni mezzo mosso solo dalla voglia di esserci e di fare della propria vita una vita. Il suo lavoro ne è l’esempio unico, assoluto. Non ha mai smesso di fare film Claudio. Ne ha girati tre ma ne ha scritti, fatti e visti almeno il triplo. Questo deve accadere ad un regista che vede sfumare i propri progetti per motivi enormi o a causa di persone piccolissime. Pensare, scrivere, vedere, riscrivere, ripensare, vedere ancora fino alla morte del progetto e, nonostante questo, continuare a vederlo finito, il proprio film. Così ha fatto anche lui. Noi che abbiamo avuto il privilegio di lavorarci questo lo sappiamo bene. Ogni film non fatto da Claudio, Claudio lo ha fatto eccome. Come ha fatto il suo terzo e ultimo. Con l’amore e la cattiveria che la malattia gli imponeva. Con la dolcezza di chi riconosce la magia del cinema e delle persone che lo fanno. Con la stronza intelligenza di chi urlava il diritto al cinema da conoscere e da poter fare. Con un winchester immaginario sotto l’impermeabile a ricordare che Ford e Sam Peckinpah erano lì con lui anche se stavamo all’idroscalo di Fiumicino anzi, soprattutto per quello. Era pieno di roba e di gente Claudio. Il suo Martino in un angolo della testa. PPP sempre a portata di citazione. I suoi ‘ultimi’ da raccontare, facendoli volare dal basso dei sondaggi sui quotidiani, all’alto del livello drammaturgico in un copione e poi sul set. Il suo cinema è stato e sarà sempre politico. Non ha mai smesso di esserlo neanche quando non veniva materialmente realizzato. Bastava parlarne. Guardarlo mentre sceglieva il ritmo del respiro giusto per pronunciare la frase epica di turno. Ha sempre conosciuto i film che ha fatto. Li ha mangiati, bevuti, e vomitati prima di farli diventare un film. È stato forse l’ultimo intellettuale vecchie maniere. Con la capacità di sporcare la propria anima e la propria intelligenza del nucleo essenziale di quello che si apprestava a raccontare. Per Claudio ‘ideologia’ non è mai stata una brutta parola. Lo ha spinto a non fare mai un passo indietro e gli ha permesso di difendere quello che faceva con una forza che non ho mai visto in vita mia. E gli ha consentito anche di lottare con il male costringendolo ai supplementari più di una volta. Claudio ha perso ai rigori, che si sappia questo. E ai rigori non è mai una sconfitta reale. A tutti noi che lo abbiamo accompagnato nell’ultimo sogno realizzato è bastato questo. Onorarlo nel lavoro che più ha amato, maledicendo la sua ostinazione, ammirandone la tenacia, il coraggio e la passione. Ridendo alle sue battute crudeli. Commossi davanti alla sua commozione dell’aver iniziato e finito il suo nuovo e ultimo film. »

Ed ecco il trailer:

Posizione n. 8

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’71
di Yann Demange
Regno Unito

Belfast. 1971. L’esercito inglese cerca di sedare le rivolte dell’IRA camuffando con delle semplici perquisizioni la volontà di catturare i leader della rivolta. A farne le spese, Gary, giovane recluta britannica che improvvisamente si ritrova abbandonato dalla sua squadra all’interno del territorio avversario. Un territorio in cui tutti lo vogliono morto: sia gli irlandesi, sia i suoi stessi compagni che giocano nell’ombra. Con un rigore formale asciutto e potente, Yann Demange firma il primo lungometraggio della sua carriera attenendosi a un’unita di luogo e di tempo serratissima, e dirigendo le straordinarie performance di Jack O’ Connell e di uno Sean Harris duro come la pietra.

Il trailer:

Posizione n. 9

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Jia – The Family
di Liu Shumin
Cina

Cinque ore dura l’opera prima scritta, diretta e montata da Liu Shumin.
Un minutaggio capace di scoraggiare qualsiasi spettatore non votato al sacrificio e al martirio ma che, incredibilmente e miracolosamente, riesce a scorrere tenendo incollati gli spettatori dal primo all’ultimo fotogramma della pellicola.
“Non avrei saputo cosa tagliare, mi sembrava tutto fondamentale per raccontare questa storia!” dichiarerà con un po’ d’ironia Shumin alla fine della prima proiezione durante i giorni del Festival del Cinema di Venezia ed effettivamente, nonostante ogni pronostico, sarebbe stato difficile dargli torto.
Ma cosa racconta questo film?
Di un uomo e una donna, ormai anziani che conducono una vita lontana dai loro figli, trasportati dal lavoro in tre diverse e lontane regioni della Cina. Non potendo chiedere ai propri figli di smettere di lavorare, decidono così di sfruttare la libertà concessagli dalla loro pensione per mettersi in viaggio e andare a trovarli. Comincia in questo modo un’avventura che esplora i mutamenti e l’evoluzione della cina rurale e quella cittadina vista attraverso gli occhi di chi ha subito quel cambiamento sulla propria pelle e ancora non ci si abitua.
Se il debito narrativo è sicuramente rintracciabile in quel “Viaggio a Tokyo” che Ozu firmava nel 1953, lo sguardo è originale e fermo nel nostro tempo. Una fotografia della vita, una fotografia del mondo.
Cliccando QUI la mia recensione approfondita.

La cosa più vicina a un trailer che ho trovato:

Posizione n. 10

The Whispering Star

The Whispering Star
di Sion Sono
Giappone

L’umanità è quasi del tutto estinta, la Terra è morta e gli ultimi sopravvissuti attendono che si compia il loro destino su pianeti lontani. Yoko è un’androide adibita alla consegna dei pacchi che questi ultimi terrestri si sono spediti e nella sua piccola astronave a forma di vecchia casa giapponese solca l’immensità dello spazio per ricongiungerli con le loro memorie, con le vestigia di un passato che non esiste più.
Questa è la strada che ha scelto di percorrere Sion Sono per raccontare ancora una volta la sua ossessione per il disastro di Fukushima (ognuno dei pianeti esplorati è in realtà una delle aree devastate intorno alla centrale nucleare), lasciando da parte per una volta la furia creativa che contrassegnava opere urgenti e vitali come Himizu e Why Don’t You Play in Hell?, ma anche la dolce speranza vista in The Land Of Hope.
E’ un Sion Sono triste e vittima della nostalgia, questo di The Whispering Star che vorrebbe tornare indietro, a prima che accadessero le cose. A prima che nascesse il cinema. Quando le ombre delle lanterne magiche, facevano sognare e immaginare un futuro radioso.

Il trailer:

Questi erano i miei migliori dieci.
Rimangono fuori da questa classifica sei pellicole che sarebbe ingiusto non nominare.
Delle menzioni speciali, diciamo.
Che rappresentano dei momenti di cinema magari non del tutto perfetti, ma che hanno qualcosa di davvero speciale e che per questo meritano di essere viste.

Una iraniana, una tibetana e ben quattro italiane.
Ve le presento:

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Wednesday, May 9
di Vahid Jalilvand
Iran

Jalal, un benestante cittadino di Teheran, mette un insolito annuncio su un giornale: donerà 10.000 dollari alla persona più bisognosa che si presenterà alla sua porta. Come ipotizzabile, una proposta del genere solleva buona parte della popolazione e presto Jalal si trova assediato: come scegliere la persona che davvero ha più bisogno degli altri?
Ben presto la selezione si restringerà a due sole donne, ma la scelta sembra davvero impossibile.
Dietro questo pretesto, Vahid Jalilvand, qui al suo primo lungometraggio, mette in mostra tutte le contraddizioni di una società che incontra per la prima volta quel tipo di benessere economico che genera un divario ancora più importante tra persone una volta simili. Un film che è allo stesso tempo una critica e una lode all’essere umano.

Il trailer:

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Tharlo
di Pema Tseden
Tibet

Tharlo è un pastore quarantenne che vive tra i monti, benvoluto e conosciuto da tutti anche se nessuno ricorda più il suo nome e tutti lo chiamano col soprannome di “Treccia” riferendosi ai suoi buffi capelli lunghi.
Nel momento in cui Tharlo però, sottostando alle nuove leggi dovrà scendere in città per fare la carta d’identità, la sua vita inizierà a cambiare.
Perché per la carta d’identità c’è bisogno di una foto.
Per la foto c’è bisogno che lui si lavi e che si sistemi i capelli. Che si tagli quella treccia, forse.
E piano piano, sarà proprio l’identità di Tharlo che inizierà a cambiare e ora che il suo nome è su un pezzo di carta, nessuno sembra più riconoscerlo.
La confusione e il disorientamento che sta vivendo il popolo tibetano viene raccontato dal cineasta Tseden come la più classica delle commedie pirandelliane.

Il trailer:

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Mia madre
di Nanni Moretti
Italia

Dileggiato in patria, osannato all’estero, Mia madre è un film preziosissimo. Un momento unico che testimonia l’urgenza di un regista che pur non essendo ancora fuori dalla dinamica di accettazione e superamento del lutto, sceglie di raccontare la perdita della madre mettendosi a nudo ma cercando di proteggersi con una serie di armature che non fanno altro che restituirne la commovente fragilità.
Non ce la fa Nanni Moretti a essere sé stesso in questo film, e per questo chiede a Margherita Buy il sacrificio di impersonarlo.
Di ridicolizzare il patto fatto con lo spettatore dai tempi di Sono un autarchico con quella che sembra una parodia ma che è solo una richiesta di aiuto. Una cortesia. Un permesso per non dover accettare di essere in crisi per una perdita così umana. E tra le pieghe della storia, il solito cinema nel cinema che fatica a trovare una realizzazione, la domanda sull’esigenza dell’urgenza emotiva contro il cinema dell’impegno civile e la sequenza di un sogno infinito, tra la fila per entrare al cinema e perdersi in un’altra storia ancora.
Il Moretti lontano da Moretti della messa in scena maestosa di Habemus Papam lascia il posto a quel Moretti un po’ accantonato negli ultimi anni e che fa piacere riconoscere.

Il trailer:

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L’attesa
di Piero Messina
Italia

In molti aspettavano al varco l’esordio di Piero Messina, già aiuto regia di Sorrentino.
Impossibilitata ad accanirsi contro un premio Oscar, buona parte della critica nostrana non vedeva l’ora di scagliarsi contro il bersaglio più vicino e, immancabile, si è fatta sentire senza accorgersi di che piccolo gioiello Messina ha consegnato come opera prima.
Jeanne arriva in Sicilia per rappacificarsi col suo Giuseppe dopo che una brutta litigata li ha separati. Giuseppe però non è in casa e Anna, la madre, dice a Jeanne che il ragazzo tornerà due giorni dopo, per Pasqua.
Jeanne decide così di fermarsi a fare compagnia a Anna e aspettare con lei il ritorno del figlio. Il ritorno del ragazzo che ama.
Ma per Maria e la Maddalena, questa pasqua potrebbe non portare con sé alcuna resurrezione.

Il trailer:

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Il Racconto dei Racconti
di Matteo Garrone
Italia

Garrone è patrimonio del cinema italiano. Punto. Il suo cinema personale, forte e sicuro, materico e sempre alla ricerca della fiaba che mostrasse il brutto e il bello degli uomini, per la prima volta gioca proprio nel campo delle favole e ne risale la sorgente fino ad arrivare a quella forma non ancora codificata che Basile, per primo, tentava di mettere insieme.
E alla forma primigenia della favola, Garrone risponde con la forma primigenia del cinema, rifacendosi a Melies e alla realtà non ancora plastificata dei fantasy moderni.
Non è un film perfetto ma è un oggetto unico che mette in scena qualcosa che non si era mai visto come nessuno aveva mai fatto prima. Per questo non possiamo che ringraziare il coraggio di un autore che continua a mettersi in gioco senza cercare facili appigli o ripetizioni e che rappresenta tutt’ora il meglio del cinema italiano contemporaneo.

Il trailer:

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Pecore in Erba
di Alberto Caviglia
Italia

Cercate questo film. Trovate questo film. Guardate questo film.
Opera prima di Alberto Caviglia, PECORE IN ERBA è il mockumentary che Woody Allen e i Monty Python avrebbero girato se fossero nati trent’anni fa a trastevere e racconta la storia di Leonardo Zuliani, sparito da sei mesi lasciando l’intera Italia nel cordoglio. Le manifestazioni in suo sostegno diventano sempre più numerose al punto che ormai Roma è piena di gente in piazza che ne chiede a gran voce il ritorno. Perché Leonardo Zuliani, ragazzino vittima di una particolarissima malattia che lo portava a odiare gli ebrei, nella vita, ha avuto sempre e solo un sogno: poterli odiare. Essere libero di poter odiare.
E l’Italia è con lui. Col suo sogno.
Si ride tantissimo nei 90 minuti di Pecore in Erba e si ride sempre. Grazie alla scrittura e alla regia di Alberto Caviglia, certamente, ma anche grazie alle straordinarie interpretazioni di Davide Giordano, Anna Ferruzzo, Mimosa Campironi e delle decine e decine di esilaranti cameo di tantissimi personaggi dell’intrattenimento italiano, tra cui anche il nostro Gipi.
Fatevi un favore e cercate davvero questo film.
E’ raro che una roba simile venga prodotta da noi. Facciamo che inizi a essere un po’ meno raro.

E con i Non Ti Stavo Premiando 2015, sezione CINEMA, direi che è tutto.
Nel prossimo post toccherà alla musica.

 

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Non Ti Stavo Cercando: il romanzo.

26 ottobre 2015 da Mauro

NTSCover

Avete presente quando una di quelle idee sceme, si insinua sotto pelle e piano piano prende il posto di tutte le altre cose serie cui dovreste dedicare il cento per cento delle vostre attenzioni?
Ecco.
Quell’idea scema è diventata un libro che ho appena finito di scrivere.
E’ una cosa piccola che incidentalmente si intitola come questo blog e ha una copertina che dovrebbe ricordarvi qualcosa.
Ma la storia dentro è tutta nuova e potrete trovarla in occasione dell’imminente Lucca Comics & Games allo stand del nostro Studio In Rosso.

Siccome non vedo l’ora di farvelo leggere, vi regalo i primi due capitoli.
Fatemi sapere cosa ne pensate:

NTSCover

Capitolo 1

  1. Il suo culo e nient’altro.
    Ma sto ancora dormendo.
    Inspiro e sprofondo nell’apnea bianca di lenzuola che odorano troppo di pulito e poco di quanto le abbiamo sporcate fino a – che ore sono adesso? È ancora buio, no? La luce dell’abat–jour non mi fa capire nulla – boh, prima. Fino a prima. Fino all’odore che avevano prima di noi due.
    Emergo dal mio lato spuntando appena e intravedo la mia giacca per terra, il mio zaino ancora chiuso poggiato al mobile nero. E le sue scarpe, le mie, le sue mutande, la sua maglia, il portafogli, i passaporti, i check–in dell’aereo e tutto quel disordine di chi entra nella stanza di un albergo dall’altra parte del mondo, col solo obiettivo di scoparsi fino a svenire.
    Immergo, riemergo.

Ancora il suo culo. Il suo culo e nient’altro.
È lì fuori in balcone, ma io lo sento ancora qui, dove finiscono le mie dita, caldo e tondo mentre sbatte sul mio corpo al tempo delle mie spinte e aritmico rispetto al suo fiato spezzato. Mentre tutto, eccetto noi, era buio e silenzio.
È lì fuori in balcone, e io mi sforzo di guardare altro, di seguire la linea delle sue gambe fino al pavimento o quella della schiena fino ai capelli, ma è sempre lì che torno.
All’unico rifugio in cui sparire per lasciare fuori Roma e tutte le voci, gli occhi e le dita da cui siamo fuggiti per tornare a respirare e smetterla finalmente di ucciderci, spaventati l’uno dall’altra.

Mi alzo con la consapevolezza che il mio movimento ne causerà necessariamente uno suo di risposta, spezzando così la perfetta visione di lei completamente nuda su un balcone al trentaquattresimo piano di un albergo che affaccia sulla totalità di Bangkok, e quando si volta verso di me, riesco a dirle soltanto “no”.
– No cosa?
– Non voltarti. Rimani come stavi.
Lo fa con quella frazione di ritardo di chi ci tiene a sottolineare il suo assenso e, sollevando appena quel suo culo tondo e caldo, calcola perfettamente l’istante del mio arrivo alle sue spalle, lasciandolo passare per un caso.
Aderisco al suo corpo più freddo del mio e la stringo intrecciandole entrambe le braccia al petto.
– Sei caldo.
– Ero sotto le lenzuola fino a un istante fa.
– Non ti volevo svegliare.
– Non l’hai fatto.
– Stavo guardando lì, quella barca sul fiume. Come si chiama?
– Il fiume o la barca?
– Il fiume.
– Chao Praya.
– Ecco, stavo guardando quella barca sul Chao Praya.
– E perché?
– È l’unica cosa che si muove a quest’ora.

Un movimento delle spalle, decisa e morbida ruota su sé stessa senza togliersi dalle mie braccia e finisce per strusciare i piccoli seni contro il mio corpo.
– Speravo ci fossimo solo noi due, in questa città – dice.
Apre la bocca come se dovesse aggiungere qualcosa, ma poi ferma il pensiero senza richiuderla. Si avvicina al mio viso, poggia i denti su una guancia e la morde affondandomeli piano nella pelle.
Lo fa di nuovo, e poi ancora, aprendo ogni volta di più la bocca e spostandola sempre più sulla mia.
Dal balcone al letto, un’eternità sospesa.
Il resto, una voce silenziosa.

NTSCover

Capitolo 2

Bussano alla porta mentre il cartellino non disturbare pende dalla maniglia interna.
Porto entrambi i piedi sul pavimento, punto i gomiti nelle gambe, gli occhi nei palmi e, stirandomi la faccia, mi alzo. Cerco i pantaloni ma saranno con le mie mutande e la mia maglia a ridere alle mie spalle.
Appaio per uno spicchio di faccia alle due tizie oltre la porta e gli dico in un inglese inventato che non fa niente, ci teniamo la camera sporca. Loro cantilenano un “Sawadicaaaa!” e svaniscono.
Sbadiglio richiudendo la porta, percorro all’indietro gli stessi identici passi di prima e il viso di Alice è lì che mi guarda.
Sorride e mi guarda.

Abituato, negli ultimi dieci anni, a svegliarmi con donne che maledicono la vita fin dall’istante in cui aprono gli occhi, quel sorriso fa l’effetto del primo film sonoro nel ’29, della puntina poggiata sul vinile senza ricordarsi che il volume delle casse è posizionato sul massimo: un rumore assordante a cui non so esattamente come reagire.
Faccio finta di nulla sperando che non si accorga che la sto guardando come se avessi le prove che nel lago di Loch Ness ci sia davvero una specie di dinosauro e mi infilo nel letto con lei.

Sorride ancora senza staccare gli occhi dai miei e mi si stringe addosso mettendomi una mano tra le gambe. La stringo e il suo corpo piccolo sparisce nel mio.
Solo la testa continua ad avere una sua autonomia e dopo aver trovato un mio orecchio gli spinge dentro un “che ore sono?”.
– Non lo so – e aggiungo. – Sono ore che non lo so. È da stanotte che non lo so.
Non abbiamo fatto neanche i conti con il fuso orario, allungo la mano alla ricerca del mio telefono, lo afferro e vedo che segna le sei di mattina. Mezzogiorno da queste parti, quindi.
– Abbiamo dormito pochissimo – dice.
– Hai sonno?
Non mi risponde, esce dal letto umiliando ogni paragone possibile con la mia alzata precedente e con tutte le alzate del mondo avvenute nello stesso istante.
Non mi abituo al fatto che quel culo sia ancora lì, quella schiena anche e lo stupore con cui la guardo è lo stesso di ieri, nonostante dell’alcool non senta più alcun postumo.
Difficile trovare una donna che sia così tanto più bella nuda che vestita, ma Alice era cintura nera nella sacra disciplina di guadagnare punti al cadere di ogni indumento.
Perfino ora che abbassava la serranda e il suo corpo svaniva col resto, bastava riconoscerne i contorni e il colore per volerla ancora.
– Freddo – dice, rientrando nel letto.
– Non m’avevi detto che qui adesso era estate?
– No, quella arriva a marzo. Siamo a dicembre.
– Esagerato, siamo a gennaio.
– È ancora dicembre.
– Ma è il trentuno! – dice salendomi sopra.
– L’anno finisce da lontano – rispondo accorgendomi di non sentire il suo peso sul mio corpo.
– E comincia da vicino – mi bacia la bocca.
– Sarai ancora qui, domani? – chiedo.
– Non mi vuoi? – chiede.
– Non lo so, non ti conosco – dico.

Scende dal mio corpo rotolando sull’altro lato del letto.
– Neanch’io ti conosco.

Giovanni Lindo Ferretti

Ci risiamo.
Nuove dichiarazioni pubbliche di Giovanni Lindo Ferretti e nuovo sconcerto da parte di chi ne è fan o di chi lo è stato.
Tutto già visto, tutto già successo, e se stavolta l’occasione l’ha offerta la festa dei giovani fascistelli amici della Meloni il risultato non è dissimile da quanto emerso dalla famosa intervista di Giuliano Ferrara o nella pubblica manifestazione anti-abortista del 2008 o quando nel 2010 dichiarò di votare Lega Nord.
Ma andiamo con ordine e godetevi tutti l’ultima chicca:

 

“Succede, è successo, si sgretola e via.
(“Narko’$”)

Succederà di nuovo e nuovamente ci si traccerà le vesti:
“Giovanni Lindo Ferretti s’è bevuto il cervello.”
“Brucerò tutti i dischi dei CCCP!”
“Io pure quelli dei C.S.I.”
“Ormai è un cazzo di prete fascista!”

E l’immancabile, la mia preferita:

“Il roipnol fa un casino, se mescolato all’alcool.”

Grazie ai social sono anni che non solo percepisco il sentimento di rabbia dei delusi dal frontman di CCCP/CSI/PGR ma riesco a toccarlo con mano. Leggo le loro invettive, i modi in cui spiegano la loro delusione, il loro rifiuto a qualcosa che non riescono a spiegarsi perché percepito come un vero e proprio tradimento da parte di colui che ritenevano un punto fermo delle loro vite.

E poco importa se già nel 1985, prima ancora di pubblicare il suo primo LP, G.L.F. li metteva in guardia cantando:

“Non sono un punto fermo, né una realtà di base, né un dato di fatto.”
(“Sono come tu mi vuoi”)

Poco importa se otto anni dopo, archiviata la pratica C.C.C.P. la nascita dei C.S.I. veniva celebrata da questo vero e proprio manifesto programmatico:

“Non fare di me un idolo, lo brucerò. Trasformami in megafono, mi incepperò. Cosa fare o non fare, non lo so.”
(“A tratti”)

 I fan di Lindo lo vogliono anticlericale, ancora iscritto a Lotta Continua e, possibilmente, con la cresta.
Fanculo Ratzinger, fanculo la Lega, fanculo pure i cavalli e le montagne.

Tutto ciò mi lascia perplesso.

Perché se è verissimo che nobilitare personaggi politicamente osceni come Salvini, Berlusconi, Bossi e la Meloni è imperdonabile da qualsiasi punto di vista, è anche vero che il Ferretti che molti si sono costruiti nelle loro menti è parecchio distante da quello realmente esistente.
Osservando con attenzione tutto il suo percorso artistico e umano è impossibile, infatti, non riscontrare una coerenza rara, sempre ostentata con coraggio, onestà senza mai cedere al timore di mostrarsi lontanissimo da quel che era, sentendosi invece  vicinissimo a quel che è sempre stato.
Prendendo spunto dal titolo del live dei C.S.I. “La Terra, la Guerra, una questione Privata” provo a riassumere questo percorso dividendolo in tre semplici macroaree e sperando di fare chiarezza su alcuni aspetti che, evidentemente, non sono così noti anche ai suoi stessi fan.

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Una questione privata: G.L.F. e la religione. 

Ferretti nasce cattolico, cresciuto da donne devote e una volta lontano da casa, ha sempre affrontato il mondo alla ricerca di una religione cui aderire completamente.
Cos’erano il suo filosovietismo e il suo legarsi a Lotta Continua se non il modo più fideistico di promuovere un’ideale artistico e politico? Se non il modo più forte e allo stesso semplice di trovare il proprio posto all’interno di una società, per sua natura, respingente?
La prima volta che con Zamboni parlammo dell’allora recente “conversione” (vedremo poi che non si trattò affatto di una conversione), mi disse:

“Giovanni ha trovato un’altra droga. Per lui credere in qualcosa è una droga. Crederci con tutto sé stesso, il massimo dello sballo.”

In Reduce, pubblicato nel 2006 da Mondadori, Ferretti si mostra fin dalla copertina con addosso un saio da frate e racconta il suo buon ritorno a Cerreto come la riscoperta di quella terra e di quella religione in seno a cui era nato e a cui ha sempre sentito di appartenere.
Riassume la sua vita come un lungo viaggio servito per riappacificarsi con sé stesso, iniziato col suo addio ai monti, affrontato come una terapia contro la rabbia e la confusione sin dai tempi dei live dei CCCP, approdato a nuove forme musicali che gli hanno fatto conoscere prima il Mediterraneo, poi l’Europa e infine le vastità dell’Asia, alle prese con le differenti visioni di Sè stesso al cospetto degli altri, e poi, finalmente il ritorno. Il ritorno a sua madre, ai suoi parenti, ai suoi cavalli, ai suoi concittadini.

E in tutto questo lungo viaggio, la sola e unica costante è sempre stata la presenza del sacro, del Dio.
Chi si stupisce oggi delle sue dichiarazioni in merito al divino, non ha mai ascoltato con attenzione i suoi album.

Già nel 1987, all’interno del secondo LP dei CCCP, trova posto il requiem di LIBERA ME DOMINE, un’invocazione al Signore per essere liberato dalla morte eterna nel giorno tremendo in cui la terra e il cielo tremeranno.
Due anni dopo canterà:

“Madre di Dio e dei suoi figli, Madre dei padri e delle madri. Madre, …oh madre o Madre mia, l’anima mia si volge a te.”
(“Madre”)

All’interno di un album che vede pubblicata all’interno una lettera scritta a “Sua Santità Paolo VI”, che in copertina mostra una vergine Maria col Bambino e che s’intitola Canzoni, preghiere, danze del II millennio sezione Europa.
Uscirà solo un altro album a nome C.C.C.P., l’ultimo, l’anno successivo.
Si intitola Epica. Etica. Etnica. Pathos e al suo interno Ferretti canta:

“Misericordioso Dio, Giusto Clemente Dio, Onnipotente Iddio, L’unico Dio che io Adoro.”
(Paxo De Jerusalem”)

E siamo solo al 1990, eh! Sedici anni prima di quella “conversione” che indignerà tanti dei suoi fan.
Nel frattempo arriveranno i C.S.I., cambierà il genere e l’approccio musicale, cambierà la formazione, ma indovinate un po’ cosa rimarrà come costante assoluta?
Esattamente!
Tutto Ko De Mondo e Linea Gotica sono stracolmi di invocazioni a Dio.

All’interno di Linea Gotica, in particolare, Ferretti si lascia scappare un:

“Non sono scrupoloso al riguardo di dio, è a nostra immagine e somiglianza”
(“Millenni”)

ma nelle note presenti all’interno dell’album specificherà: “Sia chiaro, ciò non farà di me un anticlericale, di tutte le sette la più sciocca”, per poi aggiungere, fregandoci un’altra volta: “…anche se di questi tempi, la meno pericolosa.”

La “miracolosa” guarigione dal cancro alla pleura, lo convince di aver ricevuto una grazia e proprio Per Grazia Ricevuta chiama il suo nuovo progetto musicale, nato la notte del 29 giugno 2001 a Montesole in un concerto con alcuni dei suoi compagni ex-CSI e celebrato in memoria di Don Massetti, il prete protagonista del movimento cattolico del dopoguerra, nonché padre della Costituzione.
Tra le canzoni del live, di nuovo quella “Madre” che Ferretti dichiarerà di non eseguire mai durante le prove:
“Non si provano le preghiere. E’ assurdo. Preferisco stonarla. Ma come diceva Dio a Davide quando suonava e ballava: “Danza per me, non per la qualità della tua danza!”
Il ché, dovrebbe ricordarvi un’altra famosissima canzone dei CCCP che magari, adesso, avrà ai vostri occhi un altro significato.

Nel 2004 arriverà l’album “Litania”, in cui insieme a Ambrogio Sparagna, G.L.F. proporrà delle nuove versioni dei vecchi brani dei CCCP, accostate, guarda un po’, a delle preghiere tradizionali, e solo nel 2006 arriverà finalmente quel libro “Reduce”, e con lui, tutto quello stuolo d’interviste grazie a cui, finalmente, i suoi “fan” scopriranno che Giovanni Lindo Ferretti sta leggermente in fissa con la religione cattolica.
E pensare che erano solo ventidue anni che provava a farlo capire a tutti.

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La guerra: fedeli alla linea, la linea non c’è.

Le idee politiche di Giovanni Lindo Ferretti sono SEMPRE state estreme, è il punk che è sempre stato una scusa.
Gli stessi CCCP venivano considerati dei “venduti” da tutti quei “fedeli alla linea” che, incazzati perché la band emiliana aveva firmato un mega contratto con una major come la Virgin, li accoglievano ai concerti con degli striscioni che mostravano la scritta “Fedeli alla lira”.
Il risultato?
“Fedeli alla lira” divenne una delle loro canzoni più suonate ai concerti e l’ira dei fan iniziò a essere messa a durissima prova in una serie di provocazione continue che trovarono il loro zenith nel capolavoro avvenuto durante Arezzo Wave, in cui i CCCP saliti sul palco, si limitarono a declamare l’ormai famoso slogan:
“Arezzo mi attrezzo per il tuo disprezzo!”
e iniziarono a eseguire esclusivamente vecchie canzoni alpine, di guerra o religiose senza sfiorare minimamente il loro repertorio.
Si salvarono dal linciaggio solo perché vennero scortati via dal palco dal servizio d’ordine.
Ma mentre il placido Zamboni (lui sì, vero uomo di sinistra) non l’ha mai voluto, quel disprezzo, Ferretti ci ha sempre sguazzato.

“Invece di pensare, continua a salmodiare”
(“Punk Islam”)

cantava negli stessi concerti in cui chiedeva una mano per incendiare il piano padano anche se, col senno di poi, forse i versi più programmatici erano quelli in cui gridava al suo pubblico:

“Affrettati fa presto, il gioco volge al termine, punta sul rosso, punta sul nero, punta di più. Il gioco è fatto e la posta sei tu.”
(“Tu Menti”)

E lui lo sa bene, perché sul rosso ci ha puntato per tanto tempo e ora non è chiaro se stia puntando sul nero o di più, ma è sicuro che la posta in gioco sia sempre lui.
Ora che è un sessantenne ritirato nel suo paesino tra i monti, completamente chiuso nel suo mondo fatto di albe, cavalli, orti e qualche uscita giusto per qualche tour alimentare, io pur continuando a non condividerlo, arrivo quasi a capirli i motivi dietro il suo arrivare ad abbracciare delle tesi conservatrici. Di protezione del territorio. Di nutrire i propri anziani nel tempo di morire, invece di abbandonarli per preoccuparsi di chi vive dall’altra parte del mondo.

E quando lo sentiamo inneggiare a gente tipo la Meloni però, non dobbiamo pensare che sia una bizzarra presa di posizione attuale perché vorrebbe dire dimenticare che già negli anni d’oro lo abbiamo sentito esprimersi a favore di personaggi imbarazzanti come Gheddafi e che rese protagonista di una delle sue canzoni più famose, proprio quello Jurij Vladimirovič Andropov che nel 1983, per errore “sparò” a un aereo di linea Coreano, scambiandolo per un aereo spia americano, e causando così la morte di 269 civili innocenti.

“Spara Jurij spara!”
(“Spara Jurij!”)

cantava Ferretti e chissà quanti dei suoi fan avevano davvero capito a cosa si riferisse.

Ferretti di sinistra, Ferretti di destra, dite.
Ma ve lo ricordate chi era il vero protagonista di quel baraccone felliniano che erano i live dei CCCP?
Danilo Fatur, spogliarellista omosessuale, “artista del popolo”, SUPER fascista che votava M.S.I.
Ferretti di sinistra, Ferretti di destra, dite.
Io in un Ferretti che non reputi più la Meloni “un leader credibile”, non ci credo, e ormai neanche ci spero più di tanto.
Si  è sempre dichiarato, furbescamente, un “pre-politico”, e voglio illudermi che alla base di queste sue recenti affermazioni, al netto di una – comunque probabile – demenza senile – ce ne sia una coerente con quanto dichiarò ormai tanto tempo fa:

“A volte si rimane fedeli a una causa solo per il fatto che gli avversari di essa non cessano di essere insulsi.”

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La terra: Il ritorno a casa.

“Solo dopo i trenta avvenne che, non contento di me, tornai a casa senza legami e senza giuramenti a chicchessia che venga a reclamare alcunché.
Cammino nei castagni tra faggi e cerri sotto cieli spaziali attraverso le radure. Mi intrigano le felici in rovi, inciampo e s’apre di spine e cardi la mia pelle. Scopre la mano mia durezze nuove, lava i pensieri miei la pioggia dura, li attutisce la neve, la nebbia li rischiaccia, li strizza il sole. Li accende il fuoco, li consuma, poi.”
(Palpitazione tenue)

 La fuga dai monti natii, la fuga dall’ospedale psichiatrico in cui aveva lavorato per 5 anni, la fuga da Berlino in cui aveva conosciuto la persona più importante della sua vita: l’amico Massimo Zamboni, con cui capirà come dare vita al suo fuoco interiore, la fuga dall’Italia coi CCCP, la fuga da Mosca coi semi dei CSI, la fuga dall’Emilia, la fuga dalla Francia, la fuga dall’Italia che resiste, la fuga dai Balcani e le loro guerre continue che rivelarono le guerre che ognuno di loro portava dentro senza neanche saperlo, la fuga dalla Mongolia che doveva rinsaldare un’amicizia che invece venne distrutta completamente, la fuga da quella Berlino dove tutto era cominciato e dove tutto finiva tra parole che presero fuoco come micce e che mettevano paura.

La musica come momento solitario. Il cancro. Montesole. Il ritorno a casa. La morte della Madre. Del cavallo Tancredi. La necessità di ricominciare dove tutto era cominciato. Rinchiudersi nel nido perché è l’unico posto sicuro dove guardare il mondo con l’occhio lineare dell’animale che non sa capire.

Quando ci si chiede come mai un uomo come Ferretti, un ex punkettone che ha girato il mondo, parli in termini così entusiastici della montagna e del suo rapporto coi cavalli, basta leggergli le cicatrici sul volto.

Basta vedere tutte le volte che è morto per capire quel bisogno di risorgere in pace.

 

“Un freddo più pungente, accordi secchi e tesi, segnalano il tuo ingresso nella mia memoria.”
(“Emilia Paranoica”)

Così comincia quella che è forse la canzone simbolo dei CCCP. La scrive Ferretti per Zamboni. A Zamboni.
E’ il suo modo di fermare su carta e di cantare con voce il primo momento che ha dato inizio a tutto.
E’ il suo modo di sottolineare quanto per lui sia stato fondamentale conoscere Massimo.
La loro storia arriverà a corrodersi al punto che, anche il tentativo di riappacificazione che faranno a Berlino quindici anni dopo, finirà in una canzone. Di Zamboni, stavolta, che parlando dell’ultima discussione avuta con l’ex amico, la racconterà così:

“Parole che dette travolgono i tramonti
il battere del polso sul mercurio
Rumori, calori, sudori, timori, tremori.
Si complica l’elenco degli errori,
Si complica l’elenco degli errori e dei legami intelligenti
intransigenti.
Miccia prende fuoco per la gola.
Miccia prende fuoco per la gola.
Miccia prende fuoco per la gola
e straccia il cuore.

Miccia prende fuoco per la gola
e straccia un cuore che
non conta niente ormai
niente di niente ormai
Niente più niente, di niente, ormai.”
(“Miccia prende fuoco”)

Un dolore così umano e penetrante da meritare nuove fughe e nuove ricostruzioni e che invece si trova davanti la necessità di affrontare un tumore e la morte degli affetti più cari.
Niente di più ovvio che la strada più luminosa fosse sembrata quella di casa.

“Questo non è il migliore mondo possibile, ma è vero. Assolutamente vero. Questo è assolutamente vero. Vero. Vero.”
Ferretti è sempre stato un solitario alla ricerca della famiglia.
Quando quella famiglia non è più stata presente è stato necessario trovare un rifugio.
E’ quello che avrebbe fatto ogni reduce.
E non è un caso se il tour che porta avanti ormai da quattro anni ha sempre lo stesso nome: “A cuor contento”.
Perché c’è voluto tempo, ma è riuscito, grazie alla sua terra, a riappacificarsi col passato perso, giusto in tempo per poterlo ritrovare.
Non più solo una terapia, ma la possibilità di cantare col sorriso, guardando il proprio pubblico.

C’è una vecchia fotografia, presente in quello che apparentemente è l’ultimo album dei CCCP ma già nasconde il primo dei CSI, e racconta questo gruppo di persone straordinarie meglio di quanto potrà fare ognuno di noi che li segue da tanto.
Ci sono tutti loro, da una parte, e Giovanni in un’altra.
Con lui soltanto un cane.
Tutti sorridono e ci guardano.

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Ognuno al posto suo.

 

Il mio post si chiude su quell’immagine, e non ho molto altro da aggiungere.
Se invece vi interessa approfondire, vi consiglio di recuperare, tra i tanti che sono stati scritti,  almeno questi due libri: il vecchissimo “Fedeli alla Linea”

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e il recente “Quello che deve Accadere, accade”.

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Entrambi editi da Giunti.

E il bel documentario di Germano Maccioni

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di cui vi mostro un trailer:

che difficilmente vi lascerà indifferenti.

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Lo zaino è piccolissimo e mi chiedo se sulle spalle lo sentirà pesante.
Mi dico di no e tanto lo so che domattina comunque non riuscirò mai a convincerlo a infilarselo e finirò per portarglielo io.
Usciremo di casa, Meme davanti con lui, io dietro a chiudere a chiave la porta, cercheremo le lucertole sulle scale fino al cancello, poi i gatti del vicinato, le corse tra le piante incolte nel parcheggio, le urla per le foglie cadute e trovate in terra come piccoli tesori e poi in macchina, nel seggiolino, fino al suo primo giorno di asilo.
Siamo cresciuti con le voci di uomini che raccontavano la crescita dei propri figli, il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, quello all’età adulta, il passaggio di testimone. Così tante storie, spesso piatte e zuccherose, che anche solo toccarla, questa materia, è un gioco di fioretto, un equilibrio romantico ed esibizionista, una destrezza tra il ridicolo e il cheppalle.
Ma io guardo, penso, rimugino, ritorno e sento la necessità di scriverlo, questo tempo, prima di viverlo.
Di anticiparlo prima di saperlo, per trasformare i dubbi in una distrazione.
La vita di mio figlio è iniziata ventuno mesi fa e negli ultimi ventuno mesi lui ha imparato tutto, io soltanto tre cose.
La prima: non mi chiedo più perché la gente vive lamentandosi.
Il lamento, il pianto, è l’unica forma espressiva, di sopravvivenza, con cui nasciamo. L’unica skill già compresa nel pacchetto base delle necessità. Il neonato piange se ha fame. Piange se ha male. Piange se vuole la madre vicina.
Non ride soddisfatto di quello che ha ottenuto ma piange per comunicare quello che gli manca.
Ed è più o meno quello che ogni essere umano farà per i successivi cento anni della sua vita.
Per cui, colleghi umani, non ce l’ho più con voi per le vostre lamentele, non è colpa vostra, siamo stati disegnati così: piagnoni.
Il sorriso è un meraviglioso sforzo successivo che non ci appartiene e che dobbiamo imparare.
Una fatica, lo so.
Seconda cosa che ho imparato: il recupero delle prime volte.
A 35 anni solitamente si sono mangiati i piatti delle più svariate cucine, si sono esplorati almeno tre dei cinque continenti, si sono ascoltate tutte le canzoni preferite e già visti i film che ci hanno cambiato la vita. Abbiamo fatto l’amore con tutti quelli che volevamo (tranne uno) abbiamo letto libri che abbiamo regalato (tranne uno), abbiamo litigato così tanto coi nostri genitori che abbiamo imparato a amarli e abbiamo studiato così a lungo da non volerne più sapere.
Difficile, quindi, che qualcosa ci risulti del tutto nuova.
Per mio figlio invece è nuovo starnutire, sentirsi la lingua brillare per l’acqua frizzante, addentare il rosso del cocomero, vedere una palla rimbalzare, mettere i piedi nella sabbia. E la sua espressione estasiata, stupita e ansiosa di condivisione rispetto a qualsiasi nuovo lo sfiori, è aria fresca e cibo caldo. E’ il dono di poter vivere di nuovo una scoperta dopo aver già scoperto tutto.
E’ vedere Twin Peaks dopo aver dimenticato chi ha ucciso Laura Palmer. I Beatles prima di Yoko Ono. Italia/Germania al fischio d’inizio.
E infine c’è una terza cosa che prima di essere padre non immaginavo e ora invece sì, e mi viene particolarmente facile raccontarla stanotte perché è – rullo di tamburi – la mia paura per il suo primo giorno di scuola.
Sì, ok, stiamo parlando del nido, non proprio della “scuola”, ma il senso è lo stesso.
E non è proprio quella paura che ti ghiaccia le gambe e ti mischia la testa, ma più un pensiero ricorrente, però fatevi spiegare.
Io sono fortunato: ho una famiglia numerosa, vicina e presente. Una famiglia che mi ha aiutato tanto con GZ e che ha contribuito parecchio a crescerlo permettendo a me e a Meme di non modificare drasticamente le nostre vite.
Escludendo sporadici incontri con altri bimbi nei parchi, questa famiglia, insieme ai miei amici più belli, rappresenta la totalità degli esseri umani con cui è entrato in contatto GZ da quando è nato.
Esseri umani che vivono per tutelare i suoi bisogni, rispondere alle sue domande, stargli vicino, amarlo, dargli tutto ciò che gli serve.
E ogni volta che ho visto GZ ridere di cuore, ogni volta che mi ha abbracciato con le mani strette al collo, che si è stupito per aver sbattuto la testa per sbaglio, che l’ho sentito addormentarsi tra le mie braccia, eccolo lì il pensiero: cosa avrebbe provato nel primo momento in cui si sarebbe trovato senza nessuno di noi, vicino?
Da domani inizierà a incontrare chi gli porterà via un giocattolo perché lo vuole per lui. Chi lo farà cadere a terra per divertimento. Chi starà con lui per un po’ e quando si stuferà andrà via.
Voi non immaginate quanto io mi senta sciocco a scrivere queste robe, ma il pensiero che da domani, inizierà per la prima volta quel processo che lo porterà inevitabilmente a scoprire le prime delusioni, le prime incomprensioni, i primi dispiaceri e a dover lottare per affermare la propria identità, mi fa sentire così minuscolo e impotente al punto da non riuscire a vedere la maestosità dell’impresa.
Eppure allo stesso tempo mi esalta.
Felice che inizierà a forgiare realmente il suo carattere, mi resta il pensiero che l’essere così tranquillo e pulito che adesso dorme nella stanza accanto dovrà iniziare a cavarsela da solo circondato da chi non risponderà necessariamente ai suoi sorrisi con un altro sorriso.
Una di quelle problematiche, me ne rendo conto, che tirate alla lunga trasformano le persone nella madre di Norman Bates, ma vi racconto una cosa.
La prima volta che GZ ha visto tanti bambini insieme aveva poco più di un anno ed era il compleanno di Gabriella.
In una sala, due ragazze li controllavano e facevano animazione per permettere ai loro genitori di godersi liberamente la festa della loro amica bella.
Nell’istante in cui GZ li ha visti tutti insieme mi si è stretto al collo e non s’è staccato per trenta minuti buoni.
Paura. Panico. Bimbi no.
A un dato momento è sceso, mi ha preso la mano e ha voluto che lo accompagnassi davanti alla porta a vetro che lo divideva da tutti gli altri. C’era una bambina, lì, dall’altra parte del vetro trasparente, che ci strusciava le dita e la bocca sbavandoci sopra.
GZ mi lascia la mano, corre da lei, ma non sa aprire la porta. Mi fa un gesto, gliel’apro io. La bambina esce e si mette sullo stipite. GZ le mette una mano sulla guancia e le dà un piccolo bacio di presentazione sull’altra guancia. Sorride, poi entra.
A quel punto, come se dovesse presentarsi a TUTTI i bambini presenti, va da ognuno di loro e gli dà un bacio sulla guancia seguito da un sorriso.
Nessuno di noi gli aveva detto che si doveva fare così, fu un gesto spontaneo, semplice, voluto e purissimo.
Qualcuno ricambiò, ma per ogni bambino più grande che rifiutò quel saluto scappando via, GZ si voltò verso di me chiedendomi senza parole che cosa avesse sbagliato.
Mi sforzai di fargli capire che non aveva sbagliato nulla, consapevole che è a causa di tutte quelle piccole paure di aver sbagliato che accumuliamo negli anni che finiamo per trasformarci in qualcosa di completamente diverso.
E spesso opposto.
Poi, dimostrandosi decisamente più forte di me, si lanciò nel gioco e due ore dopo era ancora lì, senza alcuna voglia di andare via.

Scrivo queste ultime righe, poggio il portatile a terra e mi alzo dal letto.
Vado a guardarlo.
Dorme come dormo io: inizialmente sul fianco destro, con una mano sotto il cuscino, per poi spostarsi a pancia in su mantenendo quella mano sempre sotto il cuscino.
Mi rivedo in ogni suo gesto e per questo so che voglio essere le armi con cui affronterà la sua crescita, non la zavorra che regge sulle spalle.
Ma per riuscirci devo crescere un altro po’.
Devo imparare una quarta e una quinta cosa e intanto continuare a raccontargli tutto quello che so.
Magari evitando di dirgli chi ha ucciso Laura Palmer.

La mia sveglia suonerà tra quattro ore, speravo di chiudere questo post un’ora fa per dormirne almeno cinque, ma già sapevo che non ce l’avrei fatta.
La notte che precede un nuovo viaggio si porta sempre dietro la scusa per non dormirla.

 

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