Lacerazione e leggerezza: Jan & Sara Saudek.

22 luglio 2011 da Mauro

“Quando ho cominciato a scattare fotografie, tutti mi consideravano la puttana di Jan. Niente di più, niente di meno. Ed è buffo se pensi che ho iniziato proprio per dimostrare a lui che le donne non sono soltanto qualcosa da desiderare, conquistare e penetrare.”

Con queste parole mi si presenta Sara Saudek.

Modella, musa e sposa di quel Jan Saudek

che, col suo immaginario onirico, erotico, ironico, malinconico, partendo dal misero scantinato di Praga in cui lavorava di nascosto e negli orari più improbabili, è arrivato con forza e merito ad ottenere un posto di tutto rilievo nella cultura popolare occidentale.

Il contesto, va detto, non era dei più favorevoli, ebreo nato a Praga, Jan vede deportati i suoi genitori e perde molti dei familiari nel campo di concentramento di Terezin.
Per quanto amasse dipingere e disegnare, gli obblighi di leva prima, e di lavoro in fabbrica dopo, gli impediscono di dare concretezza alle sue passioni.
Sarà la prima moglie Marie a regalargli, nel 1959, la sua prima macchina fotografica e, proprio con quella, nel buio dello scantinato in cui è costretto a confinarsi per evitare i ferrei controlli della polizia, Jan inizia ad esercitarsi.

I muri scrostati, dall’intonaco interrotto, che fanno da sfondo alle modelle senza volto e ai corpi segnati dalle vene e dal tempo, sono quelli del bunker artistico in cui Jan si autoconfina per fuggire all’imperante censura della dittatura socialista e sarà solo negli anni ’70, spinto da alcuni suoi clienti, che inizierà a prendere in mano quelle fotografie in bianco e nero e a colorarle dipingendoci sopra.

Questo gesto, per Jan, ha il peso di un’epifania.

Fotografare la realtà che lo circonda e dipingerla con ciò che sente dentro, con colori sempre troppo saturi e lontani dal vero, sempre violenti, romantici e sognanti, lo porta a liberarsi dei freni di cui si sente schiavo e ad usare la fotografia come strumento di catarsi personale.

E’ nelle immagini che Jan mette in scena un’ironia che nella vita di tutti i giorni tiene sopita. E’ nelle immagini che libera i suoi aspetti più animali, i suoi istinti passionali.
E’ nelle immagini che colora i suoi sogni d’amante senza tempo.

E grazie alle immagini incontra Sara, conduttrice e scrittrice di programmi Tv.

Siamo negli anni ’90. Anni in cui la vita di Jan è cambiata parecchio da quella dell’uomo che scattava di nascosto.

Separato ormai da troppi anni da Marie, Jan, grazie a un permesso speciale del governo comunista, smette dal 1984 di lavorare in fabbrica e porta avanti a tempo piano la sua attività di fotografo (del 1983 la sua prima monografia – “Il mondo di Jan Saudek” – che ne riconosce i meriti). Nel suo studio passano artisti, modelli, la creme de la creme della Praga bohemienne.

Tra questi, Sara.

Jan la vuole come modella.
Lei accetta. Ma a patto di poter usare quel ruolo per comprendere un aspetto in più del mondo di cui vuole entrare a far parte.

E’ colta, intelligente e determinata, Jan non tarda a rendersene conto e la prende come sua assistente.

“Braccio destro” si legge sul loro sito.

Quello che a Jan piace di Sara è il suo punto di vista, così opposto al suo.

Quello che a Sara piace di Jan è che vuole conoscerla. Le permette di studiarlo e di studiare, la ascolta e vuole vedere cosa può darle.

E Sara gli da quello che lui non ha:

la serenità.

Laddove ogni scatto è una lacerazione, una sofferenza, Sara porta la vita, l’ironia senza il cinismo, l’accoglienza.

Porta la coscienza di una femminilità che abbraccia a 360 gradi tutti quegli aspetti della donna che Jan non era riuscito ad esplorare o a riconoscere.

“Mi faceva sorridere quando mi parlava delle donne che fotografava, erano sempre soggetti complessi, intricati, tormentati. Uno strano incrocio di viscere e cervello. Volevo dimostrargli che una donna poteva essere anche protezione, ironia e leggerezza.”

Mi parla dell’emozione di fargli da modella. Di quel punto di vista privilegiato per carpire i suoi segreti. Mi parla dei suoi primi scatti e di quanto si sentisse impacciata ma mai in diretta competizione col suo maestro.

Mi parla dei soggetti che fotografa rivelandomi che sono, nella maggior parte dei casi, suoi amici che accettano – spesso malvolentieri –  di lasciarsi ritrarre.

“Inizialmente non vogliono. Non si sentono all’altezza, non si piacciono. E quello che mi rende più felice è vederli cambiare opinione una volta che si trovano davanti al lavoro finito. Si guardano come se non si riconoscessero, come se si vedessero per la prima volta, e quello stupore è lo stesso che provo io ogni volta che li guardo con attenzione.”

“Cosa sono per te queste persone?”
Le chiedo.

“Un libro da leggere” mi risponde. “Mi piace leggere le loro storie sulle pieghe della loro pelle, sulle loro pose e i loro sguardi”.

Ed è un pensiero molto simile a quello che si trova sul sito internet dedicato alla coppia di fotografi, in cui Sara scrive:

“Una fotografia è un miracolo, perché ci permette di fermare il tempo e mostrare l’inafferrabile: movimenti, emozioni, dolore e bellezza. Risveglia i nostri ricordi di tutto ciò che amiamo.
Sono una mamma di quattro ragazzi che ha scelto di prendere in mano una fotocamera invece di cucchiai da cucina e ferri da stiro e non faccio altro che assorbire, partendo dalle lenti fino ai miei negativi, tutto ciò che è importante per me e che è fuggevole, di passaggio: l’amore, il piacere, la tristezza come desiderio, l’odore dei bambini, la solitudine e le aspettative.
Tutte queste storie, che mi girano ancora in mente sono scritte da persone che io posso leggere come un libro.”

E’ una cosa che condivido e le rivelo che sono ossessionato dalle cicatrici, unici segni fisici, permanenti, di una esperienza reale.

Lei annuisce poco convinta e con un mezzo sorriso mi dice: “Sei come Jan e forse è una caratteristica comune degli uomini. Associate all’esperienza soltanto il dolore, ma è riduttivo. Molte delle cose più importanti che hai vissuto e che fanno di te quello che sei oggi non presentano segni sulla tua pelle. E se ci pensi bene, è poi così vero che tutte le tue cicatrici hanno un reale valore? Quante te ne sei fatte semplicemente inciampando?”

Da qui spostiamo il discorso sul concetto metaforico di ferita, di taglio e di passaggio, per poi tornare ai corpi e a quello che rappresentano.

“Il ricordo di un determinato momento della mia vita. Guardo queste foto e aldilà di quello che possano comunicare a voi, io so esattamente chi ero nel preciso momento in cui le ho scattate. Per cui, quando mi chiedono: “Cosa vuoi esprimere con questa foto?” o quando leggo le interpretazioni più ardite, l’unica cosa che posso dire, riguardo ogni mio scatto è che quella sono io in quel preciso momento storico.”

Poi, spostandosi in direzione di questo quadro,

aggiunge: “Ecco, perché questa è la foto a cui sono più legata”.

Le rispondo che è anche una delle mie preferite e che mi ricorda un racconto di Carver letto tanto tempo fa, probabilmente contenuto all’interno di “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”.
Mi risponde che non conosce Carver ma che a questo punto vuole rimediare.

Mi permetto di farle una domanda relativa all’opera di Jan.
Le chiedo se è a conoscenza del significato dei numeri presenti in basso e scritti direttamente a penna in alcuni scatti di suo marito.

Mi risponde: “Quelli in basso a sinistra sono semplice catalogazione. Quelli in basso a destra invece riportano una data, solitamente cento anni prima della realizzazione effettiva della foto, a cui Jan si ispirava artisticamente per evocare quel determinato periodo. Come a suggerire che fosse di un’altra epoca.”

A questo punto decido di rubarle semplicemente il tempo per una foto insieme e Sara accetta.

“Posso toccarti?” Mi chiede con un po’ di imbarazzo, indicandomi.
“Eh?” rispondo io senza essere sicuro di aver capito bene e aggiungendo subito un: “…si, certo.”

Si appoggia a me, semplicemente mettendomi una mano sul petto. Sorride. Click.

Lei in questo preciso momento.

Mi congedo salutandola e promettendole di inviarle le foto.
Vado via salutando e ringraziando Barbara Collevecchio, curatrice della mostra e  Dario & Cristiano proprietari della splendida (e sempre sorprendente) Galleria Mondo Bizzarro.

Se siete a Roma, o contate di passarci entro il 4 Settembre, andate a visitare questa mostra.
Sul sito della galleria trovate tutto il necessario per non perdervi.

Scritto in me, mondo, roma, segnalazioni

12 commenti

  1. meme -

    “Volevo dimostrargli che una donna poteva essere anche protezione, ironia e leggerezza.”

  2. spino -

    fino al “te posso toccà?” di Sara Saudek (ma lo ammetto, è colpa del mio cinismo) è stata una vera emozione leggere questo post!!

  3. manlio -

    illuminante,grazie mauro andrò a vederla.

  4. Michele T. -

    Davvero un bel post interessante. Come al solito complimenti.

  5. Cristiano -

    La recensione di una mostra più bella che mi sia capitato di leggere negli ultimi anni,
    complimenti!

  6. il decu -

    Mauro, ti posso tocca’ anch’io?

  7. Watanabe -

    Bravissimo, un post ben scritto e di rara semplicità nel raccontare un maestro della fotografia.

  8. skiribilla -

    Meraviglia.

  9. Emi -

    Splendido post Mauro!

  10. Mauro -

    Ehi, grazie a tutti! Prometto di andare a più mostre! 😀

  11. erica -

    Bellissima recensione,
    mi è dispiaciuto un po’ vedere l’evoluzione del fotografo… lo preferivo agli inizi.

  12. Mauro -

    ericafà, la seconda metà di foto sono state fatte da Sara Saudek! 😀

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