Giusto in tempo.

10 gennaio 2011 da Mauro

Arrivo sempre tardi.

Di fronte alle donne che mi scelgono senza che io sappia il perché.
Di fronte agli amici nonostante mi conoscano.
Di fronte ai miei che si mettono a tavola.
Di fronte ai colleghi seduti in riunione.

Arrivare tardi vuol dire impegnarsi in qualcosa che è lontano dal fulcro. Apologia del poco importante. Ode all’ininfluente.
Una mancanza di rispetto con cui affliggere in egual misura nomi, cose, città, animali e divinità.

E’ per questo che io al Wat Arun ci arrivo sempre che è già chiuso.

Me ne accorgo fin dalle acque del Chao Phraya perché non c’è il brulichio di persone che, compostamente, sale gli scalini in cantilenante preghiera.
Me ne accorgo perché dei chioschi improvvisati con le robe da mangiare non c’è neanche l’ombra.
Me ne accorgo, con un notevole colpo d’occhio, perché è buio.

L’ultima volta ero riuscito ad entrare da una porticina laterale lasciata aperta, ero stato beccato da un monaco ed ero andato via subito, portandomi dietro, senza che lui se ne accorgesse, un po’ di quella pace silenziosa e blu.

Questa volta, dopo aver fatto un saluto ai due Yak  che proteggono la statua del Budda e le ceneri di Rama II davanti alla Sala dell’Ordinazione,

(ve li presento, quello con il viso bianco è  Sahassateja

mentre quest’altro con la faccia verde si chiama Tasakanth, ed entrambi guardano incazzati verso i nemici dall’altra parte del fiume)

mi sono infilato direttamente nelle porticciole di legno che portano alla zona adibita alla preghiera per i monaci.
C’è un cane davanti a me ma i cani thailandesi sono pistole da cinema che fanno rumore e niente più. Pace all’anima di Brandon Lee.

Superata una serie infinita di piante, guardo il complesso dei Prang all’interno del Wat Arun da dietro le cancellate chiuse

e arrivo davanti alla stessa porticina dell’altra volta.
Aperta.
La sacra porta lasciata aperta per chi fa tardi. La madre dolce di ogni distratto. Il perdono per gli stronzi. O semplicemente una porta pensata per non essere accessibile al pubblico.

Passa un monaco. Mi costituisco.

Salve, anzi, “Sawadeekap” (pronuncia “saAdiikap” – con la p quasi non pronunciata) sono Mauro, faccio sempre tardi lo so. Non c’arrivo prima alle cose. Ci metto i miei tempi e ora avrei un sacco voglia di fare un giro qua dentro e scattare alcune foto.
Il monaco sorride e mi fa cenno di entrare.
Lo ringrazio: “Kapkumkap”.

Questa cosa della “p” alla fine si aggiunge solo se ti rivolgi ad un uomo. Con le donne la togli e allunghi la “a” finale utilizzando un tono un po’ più cantilenante: “KapkumkaAa”, “SawadikaAa”.

Sono dentro. Fotografo. Cammino.
Senza la gente.

Un premio immeritato, un calcio in culo a chi fa le cose come vanno fatte. Una pernacchia a chi lo meriterebbe.
Ma qui siamo lontani dalla morale cattolica del comportati bene per ottenere il privilegio e il monaco sa con certezza che espierò reincarnandomi in un bianconiglio che urla per i ritardi della sua vita precedente.

Fatto sta che sono dentro.

E mi godo questo regalo dal nome lunghissimo e impronunciabile: “Wat Arunratchawararam Ratchaworamahavihara”, per gli amici Wat Arun, per gli amicissimi: Tempio dell’Alba, per via dei riflessi delle ceramiche e delle conchiglie alle prime luci del giorno.

Salgo le scale dei Prang che portano a vedere la vita del Budda e le statue dei Kinnara metà uomo e metà uccello, il tutto sormontato dal tridente di Shiwa.


Si dice che il Prang centrale, quello più grande, rappresenti il monte Meru, che per gli Indù è il centro dell’universo, mentre quelli più piccoli, laterali, siano i contintenti, protetti dal dio dei venti Phra Pai.

Qui, di vento, nessuna traccia, solo una leggera aria. Carezzevole, direbbero i poeti.
Le preghiere che arrivano da lontano e nessun odore di incensi.

La pace.

Resto qui un po’ e poi seguo i monaci e gli studenti che vanno a pregare. Mi aggrego per qualche minuto.
Ascolto ma soprattutto li guardo.


Qui la preghiera non è un rito collettivo come da noi. Non si recitano cose insieme. Non si elevano cori di “prega per noi” e gli “amen” non salgono verso il cielo.
Il monaco esercita e ognuno di loro è per sé, tra gli altri.

Esattamente come mi sento io. Esattamente come voglio sentirmi.

Mi allontano e prima di uscire dal complesso incontro un altro monaco. Mi saluta. E sorride.

La questione del bianconiglio li deve ben disporre verso di me.
Si presenta e mi presento tendendogli spontaneamente la mano e scordandomi che i monaci non possono essere toccati.
Mi scuso, me lo sono ricordato tardi.
Gli chiedo se posso fargli una foto e mi dice di si.

Sulla riva del Chao Phraya il battello se n’è appena andato via.
Fatto tardi.
O forse sono arrivato giusto in tempo per potermene stare un po’ su questo pontile a godermi l’aria fresca e scrivere queste righe.

Scritto in Bangkok, me, mondo, seratelle

6 commenti

  1. fabrizio -

    mi hai fatto venire voglia di venire in quel cazzo di posto..
    Ok, alla prima vacanza non occidentale. Enjoy motherfucker!

  2. blablaz -

    Bellissimo quest’ultimo scatto!
    S.

  3. Irene -

    Bello tutto!

  4. stefano tiribocchi -

    che tajo! io penso che mi reincarnerei in un grande ginghiale grofolante! il per sè tra gli altri deve essere una cosa fantastica. Enojoy!

  5. Ingelo -

    Mi pare di essere stato in viaggio con te e aver gustato solo i momenti più densi: niente niente mi chiedi i soldi del biglietto!
    Grazie per aver condiviso le tue semozioni (oddio sta frase fa molto alcolisti anonimi)

  6. spino -

    se è vero che ad ogni giro ci si reincarna in una creatura inferiore… mi sa che ‘sto all’ultimo 🙂

    Post evocativo, come sempre…

Lascia un commento