Speciale BURIED – 1 di 4 – Intervista al regista.

7 ottobre 2010 da Mauro

 

Per promuovere l’uscita italiana di Buried, la Moviemax ha organizzato un grande evento serale iniziato alle 19.00 alla Fnac di Porte di Roma.
Dalla mia ho deciso di condividerne lo spirito di divulgazione e questo è il primo di 4 interventi dedicati al film.

Gli altri saranno:

2 di 4:  A tu per tu col regista. Chiacchiere sul divanetto.

3 di 4: Recensione del film.

4 di 4: Reazioni del pubblico, dibattito post film.

Iniziamo.

 

Mentre il maxi schermo proietta le immagini di un backstage del film, il regista Rodrigo Cortés si presenta al pubblico con la stessa espressione con cui compare nel video: sereno e soddisfatto.

Guarda tutti negli occhi mentre ci viene riassunta la sua carriera.
E’ al suo secondo lungometraggio, il primo che guadagna una distribuzione italiana (mentre per la sua opera prima Concursante c’era stato soltanto un passaggio al Festival di Viareggio) e sta conquistando un record dietro l’altro a fronte di una spesa realizzativa di nenche due milioni di dollari. Record da lui raggiunto anche nel campo dei cortometraggi, considerando che con l’opera 15 Days era riuscito ad accaparrarsi 57 premi soltanto in Spagna.

Cortés comunica un’immediata simpatia. Evita di prendersi sul serio e mette talmente a suo agio la platea che l’intervista si trasforma in pochi minuti in una piacevole chiacchierata tra appassionati.

Ve la riporto integralmente:

 

Buried è uno strano film realizzato soltanto con un attore in una cassa da morto ma scritto in America, ambientato in Iraq, interpretato da una star canaedese e girato a Barcellona. Come e quando sei entrato in contatto con questa sceneggiatura?

Un anno e mezzo fa nell’ambito di un progetto internazionale (probabilmente il prossimo a cui collaborerò o un qualcosa che non si realizzerà mai) ho incontrato quello che sarebbe diventato il produttore di Buried, Peter Safram, che conosceva lo script di Chris Sparling e me ne parlò. “Girala”, mi diceva, “E’ eccellente ma impossibile da girare.” “Di che si tratta?” Gli chiesi. Mi rispose: “Un’ora e mezza di un uomo chiuso in una cassa.” A me è sembrata un’idea folle al punto giusto da volerlo fare.

 

Come nasce questa tua dimestichezza con la cultura cinematografica americana. Penso a registi come Almodovar con una forte impronta nazionale, difficilissima da esportare. Come mai per te è invece sembrato naturale pensare di poter lavorare all’estero e con attori stranieri?

Questo non lo so, ne ci avevo mai pensato. Sono cresciuto nutrendomi di film diversi, di ogni genere, europei, americani, australiani. Quando mi perdo in un film non vedo queste enormi differenze e gli strumenti, in fondo, sono sempre gli stessi: una macchina da presa e qualcuno che ci sta davanti. In Spagna abbiamo molti problemi di inferiorità e quando vediamo un film ben girato diciamo che non sembra spagnolo, se questo film è invece girato benissimo diciamo che è americano. Considero miei maestri Scorsese, Billy Wilder e Hitchcock, uno americano, uno polacco, uno inglese, quindi persone provenienti da tutte le parti del mondo.
I film buoni sono sempre pochi e facendo una proporzione tra film buoni e film non buoni, la proporzione risulta la stessa in ogni stato del mondo. Diciamo che ogni anno i film buoni prodotti dagli Stati Uniti sono circa l’8% , in Spagna la proporzione è la stessa e credo valga lo stesso per l’Italia.


Buried così come Concursante ha un montaggio molto veloce che dona parecchio ritmo al film. Considerato che tu stesso sei il montatore, come coniughi questo aspetto col tuo ruolo da regista? Mentre giri hai già in mente come montare il film?

Direzione e montaggio sono la stessa cosa. Differenti fasi dello stesso progetto. Sicuramente non è sempre così e parlo solo per la mia esperienza, ci sono registi che hanno detto molto più di quanto io dirò mai in tutta la mia vita, che non hanno mai messo piede in una sala montaggio. Io visualizzo il film montato dal primo momento e quindi le riprese le faccio già sapendo come quella scena verrà inserita. Ogni film consta di 3 fasi: scrittura, riprese, postproduzione. Per me tutto questo appartiene ad un’unica fase.
Oltretutto per un film come Buried, girato in soli 17 giorni capirete che non potevamo permetterci il lusso di sprecare girato e quindi conveniva a me per primo girare una scena immaginandola sia come regista che come montatore. Quando monto mi dimentico completamente di quello che ho diretto. Sono spietato col mio stesso lavoro, non m’importa niente se una determinata scena è stata difficile da girare, per me in quel momento interessa solo il ritmo e se sento che sto perdendo l’attenzione, la taglio senza problemi. E’ così che lavoro.
Ho sempre montato i miei lavori e non ho mai girato nulla che poi non abbia montato io stesso.
Con le mie mani, come un pittore che non può dire a un altro come passare le pennellate. Farlo da solo mi garantisce di approfittare anche degli imprevisti. L'interpretazione di un altra persona in sala montaggio andrebbe a discapito della fluidità.

 

La storia del cinema è piena di aneddoti di registi che seducono gli attori per convincerli a fare dei film. Una leggenda narra che Tarantino andò a trovare a casa John Travolta, e gli parlò così tanto, fino a sfiancarlo persino fisicamente, arrivando a citargli il Blow out di De Palma pur di convincerlo a fare Pulp Fiction. Si racconta che per Buried, tu abbia scritto una lunga lettera a Ryan Reynolds dopo aver saputo che, letta la sceneggiatura aveva rifiutato la parte. Come hai fatto a convincerlo?

Credo che si tratti, per l’appunto, di leggende. Dubito che Travolta avesse questa grande possibilità di scegliere anzi, più probabile che avesse un bisogno folle di lavorare e che qualcuno gli passasse una buona parte adatta a lui (ride della sua stessa provocazione). Per quanto riguarda noi invece è vero! Ryan mi augurò buona fortuna perché aveva adorato la sceneggiatura ma pensava che fosse un progetto impossibile. Poi dopo che gli ho spiegato come intendevo girarlo e qual era il progetto reale ha iniziato a vacillare. Ma quello che realmente l’ha convinto è stato iniziare a comprendere che questa storia mi ossessionava al punto che sarei riuscito, comunque, a portarla a termine. Solo allora ha voluto far parte della squadra.

 

Come mai proprio Ryan Reynolds? E se avesse rifiutato, chi era il secondo in lista?

Tutto in questo film è andato avanti contro il buon senso e la logica quindi non c’era alcuna seconda opzione, nessun piano b.
E’ come quando hai 14 anni e decidi di fare il regista. O l’astronauta. Sono cose che comportano un lancio nel vuoto senza sapere a cosa affidarsi, ma accadono proprio per questo motivo.
Certo, se lui avesse detto di no, avremmo pensato ad una seconda opzione ma fortunatamente non ce n’è stato bisogno!

 

In tutto il film ci sono solo quattro luci, perché questa divisione? Date le premesse (la guerra in Iraq. N.d.M.) c’è un significato particolare, una metafora politica?

Ad una domanda del genere Storaro ti potrebbe dire tantissime cose, parlerebbe per ore perché lui è lo scrittore della luce… nel pieno rispetto del suo genio, eh!  Io, più semplicemente ti dico che la luce mi serve per rendere narrativamente interessante il film. Ne I prigionieri dell’oceano, Hitchcock gioca con il cambiamento della luce perché il film è ambientato nella stessa giornata e quindi comincia col mattino, passa per il pomeriggio e arriva alla sera, quindi le luci guidano il mood del film. Nel mio caso no, c’è una cassa e una notte eterna, quindi a questo punto le luci mi servono per raccontare la storia con un significato emotivo più che politico. La lampada che s’accende e si spegne è un filo sottolissimo che lo collega alla vita. Come la batteria del celulare o l’ossigeno bruciato ogni qual volta che viene acceso l’accendino quando lui si sente solo o ha paura. Cose che non vengono dette chiaramente ma lo spettatore se ne accorge e le somatizza. E servono anche per la durata del film altrimenti la scena del minuto 7 e quella del minuto 60 si assomiglierebbero talmente tanto che potrebbero confondere lo spettatore (ride).

 

Hai detto in altre interviste che l’ambientazione irachena è semplicemente un macguffin per far partire la storia, ma io non ti credo. Pensi realmente che qualsiasi altro posto sarebbe stato uguale?

Se la sceneggiatura fosse stata ambientata in Germania o in North Carolina, l’avrei accettata lo stesso. Il contesto dell’Iraq è importante della storia perché in qualche modo la determina. Chris Sparling ha studiato molto quell’ambiente, è affascinato dalla presenza di questi contractors civili di cui non interessa nulla a nessuno e che vengono sequestrati in continuazione ma gli snodi emotivi del film non riguardano la questione irachena quanto un problema di percezione che riguarda tutto il mondo eccidentale. L’empatia che lo spettatore può provare nel protagonista non ha nulla a che fare con la guerra ma con le cose con cui resta quotidianamente sepolto, dall’impazzire dietro a una compagnia telefonica che ti tiene per due ore in attesa al ritrovarsi chiuso al buio, e a combattere contro la mediocrità umana che è kafkianamente presente in Iraq, Spagna e sicuramente anche in Italia. E questo mi sembra intertessante per raccontare un storia che, più che socialmente impegnata, vuole essere un thriller d’azione… una specie di Indiana Jones dentro una cassa!

A questo punto, il presentatore lascia la parola al pubblico e alza la mano una ragazza emozionata e partecipe.

Esordisce con: “Aspetto questo film da tantissimo tempo!” e Cortés le risponde sorridendo: “Ecco, questo è un problema. Vi create troppe aspettative ed è sempre più difficile mantenerle!” Lei ricambia il sorriso, si dice fiduciosa e formula la sua domanda.

 

“Da quando sono uscite le prime immagini, nei forum si è speculato tantissimo e la domanda più frequente era questa: Perché se Uma riesce a liberarsi in 5 minuti, Reynolds ci mette un’ora e mezza?”

Cortés dalla risposta pronta ribatte: “Perché Reynolds non è mai andato a lezione da Pai Mei!” suscitando l’ilarità di tutta la sala.

Qualcun altro alza la mano.

 

Abbiamo letto di una polemica con Reynold quando gli dicevi che volevi fare delle riprese di prova nei giorni precedenti al girato e lui si è rifiutato.

Non c’è stata una vera polemica, più che altro una discussione di qualche secondo. E’ vero, io volevo fare tre giorni di prove prima di iniziare le riprese ma forse più per una mia iniziale ansia da prestazione. Ryan mi ha risposto che non avrebbe saputo cosa provare e che sostanzialmente le considerava dannose. Voleva scoprire quello che succedeva a lui come attore, insieme al personaggio che interpretava. Avrei potuto rispondergli, dai, non fare il pigro!, ma nella sua faccia non c’era pigrizia. Era sincero. Non voleva abituarsi all’idea di stare in un cassa. Voleva prendere confidenza passo passo entrando nel personaggio. Alla fine abbiamo girato per giorni ma senza mai fare prove. La sofferenza e quel senso di claustrofobia che il pubblico soffre in sala… l’abbiamo sofferto anche noi!

A questo punto prendo la parola e, verificata la sua enorme disponibilità, gli lancio una piccola provocazione:

 

Il cinema americano s’è improvvisamente accorto di questa rinascita europea del cinema horror/triller: la Francia con Martyrs, Rec in Spagna, la Svezia con Lasciami entrare, o Uomini che odiano le donne. Solitamente l'abitudine è quella di comprarli per poi girarne il remake. La tua scelta di avvalerti di una produzione americana e farlo interpretare ad un attore canadese… è stata calcolata per scavalcare direttamente il problema?

 

Ride e mi risponde.

La tua considerazione non è banale (“tonteria” in originale), anzi! Rec è un film fantastico, una pietra miliare, e ritrovarmelo banalizzato in quella roba che è Quarantine (il remake americano) scena dopo scena mi ha portato a comprendere che imitazioni come questa non fanno altro che uccidere l’originale. Vedo una serie di registi orgogliosi di “guadagnare” un remake del loro film ma io proprio non riesco a capirli né a condividere quella politica. Quindi con Buried mi sono tutelato e, come dici tu, ho scavalcato il problema e invece di correre il rischio che ne facciano un remake… me lo faccio da solo!

 

A questo punto Cortés saluta tutti, dandoci appuntamento per un piccolo buffet prima del film. Ci alziamo ordinatamente e lo seguiamo.

Nel momento in cui scrivo, Buried è già uscito negli Stati Uniti, in Europa, lo scorso weekend in Inghilterra debuttando al terzo posto in classifica. partendo come terzo, e in Spagna è stato un fenomeno.
Costato meno di due milioni di dollari, in meno di un weekend ha recuperato il suo budget ed è già un successo.

5 commenti

  1. Giovanni -

    Appena esce… MIO!

  2. Marco C. -

    Ma quanto dura il film? Certo che se riesce per più di un’ora a mantenere la tensione mostrando un tizio dentro una bara è veramente bravo come regista. Di sicuro causerà un bel po’ di crisi di claustrofobia 😀

  3. Graziano Molteni -

    Le storie sono la base di un racconto. Le belle storie sono la base di un bel racconto. Quindi, di conseguenza, una bella storia è la base per un bel film.. Però poi queste belle storie bisogna anche saperle raccontare.
    E questa ne è una evidente prova! 🙂

  4. Mauro -

    @Gio
    Più che altro spariamocelo insieme in sala appena esce!

    @Marco
    Un’ora e mezza senza uscire da lì. ma, come dichiarato dal regista stesso, dopo 5 minuti non ci pensi più e la cassa diventa un semplice spazio di contorno al personaggio e alla sua storia.

    @Graziano
    Benvenuto! Saper raccontare è tutto. Nel cinema, nella letteratura, nella vita. E’ la chiave 🙂

  5. Michele T. -

    Da quel che si evince dal tuo post il film sembra essere interessante.
    Se poi la storia è raccontata bene di certo non ci si annoierà a seguire l’intera vicenda sul grande schermo!

    Mauro, ora aspetto di leggere i prossimi post. 🙂

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