Il Dio della Carneficina – recensione

11 gennaio 2010 da Mauro

locandina dello spettacolo teatrale "Il dio della carneficina"

Il mio rapporto con il teatro è riassumibile in due esempi:

  • Sono stato tre anni con un’attrice teatrale senza mai portarla a vedere uno spettacolo.
  • Quand’ero studente universitario ho dato il mio unico esame di teatro presentando la tesina “Il minimalismo spezzato della Duse bambina” in cui paventavo un delirante accostamento tra una lettera scritta dalla divina e un testo sceneggiato da me per un numero di Blue in cui avevo copiato così tanto Raymond Carver da spacciarlo, nel mio elaborato, per un suo inedito. La relatrice se n’era già venuta due volte leggendo il titolo e non ha cercato ulteriori conferme al mio blaterare.

Visto che il 2010 sarà l’hanno del contrappasso, ho regalato un doppio abbonamento per quindici spettacoli alla mia donna, quindici spettacoli che vedrò con lei e che recensirò qui.
Senza averne la benché minima qualifica.
E senza lamentarmi perché non ci sono zombie o macchine che esplodono.

Al secondo 01 dello spettacolo scopro, con un certo disappunto, che “Il dio della carneficina”, non è un adattamento della saga di Saw né il remake lounge di Texas Chainsaw Massacre.
Questo può voler dire soltanto che siamo nei temibili territori della metafora e comprendo troppo tardi che le poltroncine dell’Eliseo sono più strette di quelle di un qualsiasi aereo della Ryanair solo per impedirmi di fuggire.
Resto. Quindi resto.
La sinossi de “Il dio della carneficina” è riassumibile su un chicco di riso. Ma non preoccupatevi, sul chicco resta ancora un po’ di spazio per l’intera cinematografia di Leconte e una lampada ikea JANSJÖ.

Ve la racconto.
Un bambino spacca la faccia a un suo coetaneo. I rispettivi genitori s’ incontrano per discuterne da persone civili, ma la civilità, entro breve, se ne andrà allegramente a puttane(potessi-andarci-io).

Tratto da un testo di Yasmina Reza e messo in scena da Roberto Andò, lo spettacolo mostra quattro personaggi implacabilmente prigionieri dei loro stereotipi. Silvio Orlando è un sarcastico padre di famiglia sinistroide che odia la vita di coppia, Anna Bonaiuto è una mamma/scrittrice/artista moralista e moralizzante ma intollerante verso chi rovina la sua proprietà, Alessio Boni un avvocato senza scrupoli cellularecentrico e Michela Cescon una vomitante casalinga disperata.  Poco succede e le sorprese, quando arrivano, sono esageratamente sopra le righe. Noi del pubblico si ride ma siamo di bocca buona e sappiamo bene che una bella sbrattata mette d’accordo tutti. Ridiamo anche a ogni “e che cazzo” o “mi sono proprio rotta i coglioni” sentendoci parte di una grande famiglia. Devo ammettere che sto esagerando con il versante stronzo della recensione e mi pento e mi dolgo di essere fatto così che se fosse stato un sequel a caso di Venerdi 13 sarei stato più clemente.
Perché nei suoi 75 minuti di durata “Il dio della carneficina” il risultato lo porta a casa meritatamente.
La messa in scena è funzionale, adatta e mai invasiva: ogni elemento scenico ha il suo spazio e il suo ruolo. Gli attori sono eccellenti e le attrici (a parte gli eccessivi sali&scendi caratteriali – voluti?) offrono una prova impeccabile.

Immagine tratta dallo spettacolo "il dio della carneficina"

Ma il vero punto di forza dello spettacolo sono i dialoghi: divertenti, ironici, puntuali. Silvio Orlando che racconta l’odissea vissuta per fare fuori l’insopportabile criceto della figlia, Boni che riceve l’ennesima telefonata di Maurice perso in problemi farmaceutici, la Bonaiuto e la Cescon completamente ubriache. Ottime battute, quasi mai banali, sorrette ed esaltate da un’interpretazione spesso superba rendono questa commedia un piccolo gioiellino.
Motivo più che sufficiente per andarla a vedere.

Le prossime date.

La scheda

Il momento:

SILVIO ORLANDO/MICHEL

“Si! Faceva un fracasso insopportabile soprattutto di notte. Quegli esseri dormono di giorno. Anche Bruno era esasperato dal casino che faceva quel topo. E io, se devo dirla tutta, non vedevo l’ora di sbarazzarmene. Basta, mi sono detto, l’ho preso e l’ho mollato per strada. Ero sicuro che gli piacessero i rivoli, le fogne, e invece no, è rimasto immobile sul marciapiede, pietrificato. I criceti non sono né domestici, né selvatici, non riesco a capire quale sia il loro habitat naturale. Nemmeno il prato li soddisfa. Non si sa dove buttarli.”

Stellette? 6/10

Scritto in recensione, teatro

4 commenti

  1. Ferruccio -

    Ma davvero t’è piaciuto lo spettacolo di Silvio Orlando?

  2. Mauro -

    Per alcuni aspetti molto, altri m’hanno lasciato più freddo.

  3. Paolo Bassotti -

    Visto alla prima, malgrado abbia col teatro un rapporto simile al tuo.
    La battuta migliore la pronuncia Orlando: “Mi hai pure fatto vestire da intellettuale di sinistra.” Il suo personaggio è incastrato nel mondo radical chic della moglie, e gli costa proprio fatica far finta di non esser fiero del suo figliolo capobanda. Peccato che nel complesso la commedia è penalizzata dall’appoggiarsi troppo a un espediente fiacco come l’ubriachezza.

  4. Mauro -

    La battuta l’ho trovata troppo “strappa consensi”, anche perchè non ce lo vedo lui come uno che, in qualche modo, si fa cambiare dalla moglie. Per intenderci, secondo me lui vestiva così anche prima. Per quanto riguarda invece l’espediente dell’ubriachezza concordo. Fiacco e tirato così all’inverosimile come se servisse a voler testare il crollo della sospensione della credulità nello spettatore!

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